Quale difesa europea?
A differenza di come scrivono in molti, questa settimana non è nata nessuna difesa europea. Un punto di vista alternativo.
Nessuno si offenda, ma a differenza dei molti titoli da parvenu usciti questa settimana sui giornali, non è nata nessuna difesa europea. Che i capi di Stato e i ministri competenti sprizzino ottimismo da tutti i pori, non c’è da stupirsi. In tempi d’integrazione in cui l’unico successo è un po’ di crescita — dove, quando, come e perché rimane ancora tutto da vedere — qualcosa ai poveri cinquecento milioni di cittadini europei bisognerà pur raccontare. È stato siglato un accordo, quello sì, più o meno convincente e più o meno rilevante, la cui efficacia è ancora tutta da dimostrare. Dunque da qua a dire che è nato un esercito dell’Europa unita che vive e lotta insieme a noi, di acqua sotto in ponti deve passarne un bel po’. Andiamo per ordine. Lunedì 13 novembre alla presenza dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, 23 Stati membri hanno aderito a quella che si chiama cooperazione strutturata permanente (PESCO), un’iniziativa avviata nel Consiglio europeo lo scorso giugno, che in buona sostanza prevede l’uso di alcuni strumenti previsti dai Trattati vigenti per rafforzare la cooperazione nel campo della difesa e della sicurezza tra i paesi dell’UE desiderosi di farlo. Sono questi i metodi di grande compromesso dell’UE intergovernativa consolidata dal Trattato di Lisbona, con gli stati nel ruolo di principali (spesso unici) attori politici in merito alla sicurezza comune, alla cooperazione giudiziaria e di polizia. Diversamente da quanto traspare dalle dichiarazioni fatte in grande stile, non stiamo quindi neanche lontanamente parlando di una comunità europea di difesa, la stessa ad esempio che fallì per mano francese nel 1954. Il processo decisionale all’interno delle cooperazioni permanenti non va difatti confuso, come vogliono farci credere, con la prerogativa comunitaria legata al mercato unico europeo, che si fonda su decisioni prese a maggioranza e con una partecipazione co-legislativa del Parlamento europeo. Al contrario, le cooperazioni strutturate conservano in nuce la prassi intergovernativa, con decisioni prese su due livelli, nel più alto dei quali rigorosamente all’unanimità dai rappresentati degli Stati membri. Che cosa vuole tutto ciò? Vuol dire che se l’Ungheria o la Polonia, due paesi firmatari della notifica congiunta che ultimamente non mostrano una spiccata propensione per l’integrazione europea, sono contrari a fare quello che gli altri 21 Stati membri della PESCO vogliono fare, nulla si farà. Siamo così al paradosso: per rifuggire una dinamica unanime dove poco o nulla si decide, il Trattato di Lisbona crea uno strumento i cui fondamenti sono esattamente gli stessi che si è cercato di aggirare. Sono in molti a sostenterete che questa sia l’unica via percorribile nell'UE per tentare di fare qualcosa insieme in settori strategici come la politica interna e esterna, e probabilmente è così. Tuttavia, un tale metodo d’integrazione non può di certo farci stampare le bottiglie di champagne, per due motivi. Il primo per il ruolo marginale che spetta alle istituzioni che rappresentano e difendono gli interessi compiutamente europei dei cittadini e non quelli biechi e nazionali degli Stati membri. Chi ci garantisce che il Viktor Orbán di turno non blocchi tutta la baracca della PESCO solo per raccogliere una manciata di voti in patria per vincere le prossime elezioni? Chi ci garantisce che tale accordo non diventi merce di scambio politica, con minacce di veto congiunte che possano facilmente estendersi anche ad altri negoziati come quello sulla migrazione? Il secondo motivo è legato all’Europa delle più velocità, che sta sempre più diventando l’Europa delle più direzioni. Un conto è stabilire che un gruppo di paesi proceda compatto verso una maggiore integrazione entro un pacchetto definito che non preveda opt-out, quindi senza possibilità di escludere competenze a seconda di come tira il vento. Altra storia è invece quella di oggi, elegantemente chiamata a geometrie variabili, vale a dire un’Unione europea in cui ogni Stato membro fa un po’ quello che vuole e si ammettono velocità diverse e direzioni diverse. Per intenderci, la PESCO appena siglata rientra esattamente in questo quadro. I fatti come al solito parleranno e un passo di lato è pur sempre meglio di un passo indietro, soprattutto se l’integrazione europea funziona, come diceva qualcuno, come una bicicletta in moto, che se si ferma è perduta. Niente eccessi di pessimismo quindi, come ha scritto qualche giorno fa Giuliano Ferrara sul caso italiano, anche se il grigiore che ci circonda a uno spirito europeo fatto di pietà e lamento, non può far dormire sonni troppo tranquilli.
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