Entriamo con Cantoni nel Castello di Kafka
La lezione insuperata del filosofo italiano: l’unico modo per accostare l’opera del genio praghese è non possedere la verità.
Se la filosofia incontra la letteratura, se il filosofo si chiama Remo Cantoni e l’opera letteraria è quella kafkiana, può compiersi il miracolo. In tanti hanno provato ad accostare i romanzi, i racconti, le favole, gli aforismi, i frammenti di Kafka (penso persino all’introspezione psicologica di Aldo Carotenuto), ma nessuno come Cantoni è riuscito a entrare nel suo Castello, aprendo la porta con le proprie chiavi, mirando, rimirando e restituendoci il disagio, il vuoto a strapiombo sull’abisso dell’anima. Chinarsi sulla pagina di Kafka, rinvenirvi ciò che altri hanno trascurato o, peggio, non visto, è la cifra di un filosofo autentico che indaga lo spaesamento, l’illusione, l’ingenuità, la colpa, il destino, la tenerezza, la caduta. E la grazia attesa. E il mistero. E il suggerimento di “abdicare all’umanesimo e alla storia, di rimettere in mani non umane la nostra sorte”, poiché la volontà e la ragione dell’uomo poco possono, intrise come sono di debolezza e precarietà.
Che cosa può un filosofo? A quali strumenti ricorre per interpretare un pensiero, per discernere una trama, per valutare un’esistenza? Intanto, ascolta, lascia parlare, lascia dire chi ha da dire: “Alcuni critici abbracciano il loro autore con una stretta che lo soffoca. Non lo lasciano parlare e non sono disponibili per l’ascolto di ‘ciò che ha veramente detto’. Io ho cercato di lasciar parlare Kafka senza sovrappormi alla sua voce”. Neanche Socrate si sovrapponeva. Lasciava parlare. E Kafka, ad ascoltarlo, ha tanto da dire, non smette di dire. Per una ulteriore prova, basta riaprire Franz Kafka e il disagio dell’uomo contemporaneo, il libro di Cantoni edito nel 2000 da Unicopli, con una illuminante nota introduttiva di Carlo Montaleone, e rileggere i saggi più importanti sull’universo kafkiano, dove i conti non tornano mai, dove il sogno si scontra con la dura pietra di una realtà angosciante, dove le note d’ombra declinano in tragedia, dove la biografia, per quanto importante e incidente, non va confusa con la creazione di un genio.
Cantoni ha il merito di aver liberato Kafka dalle pesanti sovrastrutture nevrotiche, cliniche, psicoanalitiche, sociologiche e allegoriche. Se davanti alla legge c’era e c’è ancora un guardiano, davanti a Kafka, davanti alla pagina di Kafka c’è un uomo privo di certezze e verità, perché “chi ama le risposte perentorie e apodittiche, chi già possiede la verità, chi disdegna la ricerca lunga, problematica e paziente, chi non medita sul significato della vita e della morte, chi ha già concluso insomma sul bene e sul male, sui mezzi e sui fini, può non leggere Kafka”. Kafka ha potuto leggerlo Cantoni e possiamo cercare di leggerlo noi, purché si resti fedeli alla sua insuperata lezione. Anche Kazuo Ishiguro, neo vincitore del Nobel, ha letto Kafka, tanto da dichiarare dopo l’annuncio: “È lo scrittore che ha aperto molte possibilità, tecnicamente e tematicamente: noi romanzieri dovremmo prestargli più attenzione, io ho cercato di farlo in molti miei lavori”. Evidentemente, l’ha letto nel modo giusto. Come Cantoni. Senza possedere la verità.
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