Canetti, che splendida ossessione!
Da Esposito a Magris e Calasso, sottolineature su "Massa e potere", uno dei libri più grandi di sempre
Roberto Esposito, uno dei più importanti e raffinati filosofi italiani, tanto da suscitarmi l’ardore di dedicargli una monografia (L’impolitico e l’impersonale. Lettura di Roberto Esposito, Morlacchi, 2010) ha letto che sono otto, dicasi otto, i libri di cui non so e non posso fare a meno (Il Principe, Massa e potere, Filosofia del denaro, Lettere a Lucilio, L’interpretazione dei sogni, Così parlò Zarathustra, Fenomenologia dello Spirito, I Saggi di Montaigne) e mi ha prontamente inviato un messaggio: “Voto per Massa e potere. Ma già lo sai!”. Certo che lo so. Una (p)ossessione mi lega a Esposito: quella per Canetti. Ancora Canetti. Sempre Canetti. Con la sua scrittura coinvolgente e penetrante, con il suo regno di matite, tutte appuntite e ben disposte sul tavolo da lavoro, con i libri intorno e nel cuore. Sono state le pagine sul Nobel in Categorie dell’impolitico (il Mulino, 1999) a creare un contatto, un corto circuito, una scarica, una sintonia con il filosofo napoletano. Dell’approccio “canettiano” si è servito, Esposito, per affrontare il tema della paura, alla base di ogni manifestazione del potere. Quando il potere si rivela, si impone, in tutta la sua forza epifanica, c’è sempre la paura a sospingerlo, a guidarlo.
Esposito ha scelto Canetti che lo ha scelto, poiché “ci sono autori, testi, opere che ci appartengono, di cui disponiamo, che studiamo, citiamo, analizziamo. Sui quali, in qualche modo, esercitiamo un effetto di padronanza, di possesso, a volte di sfruttamento. (…) Lo scopriamo solo dopo, che ragioniamo come loro, ci serviamo delle stesse metafore, abbiamo gli stessi deliri. Che a volte, addirittura, potremmo essere, se non loro stessi, uno dei loro personaggi, dei loro fantasmi. Ecco, per me, Canetti è uno di questi autori, il solo, forse, che mi sono portato sempre dentro”.
Come se l’è portato sempre dentro Claudio Magris, per il quale “non si tratta, come Canetti voleva credere, di un libro che esprima una verità oggettiva e scientifica, ma di una grandiosa metafora, la cui verità è poetica; è un’abnorme parabola della morte, del potere, della massa, del delirio, cui doveva seguire una seconda e impossibile (e infatti mai uscita) parte, quella che doveva, dopo la diagnosi del male, indicare i rimedi; forse addirittura l’inconfessata donchisciottesca utopia di sconfiggere la morte e disarmare il potere in ogni sua forma, grandiosa e umanissima monomania”.
Massa e potere, per Roberto Calasso, “ha un fascino del tutto unico, scandito da una sequenza di capitoli scritti da un grande etnografo, più che da un teorico della società”. È stata l’opera della vita di Canetti, l’ha accompagnata e ossessionata per trentotto anni, come accompagna e ossessiona la nostra. Lui si è salvato scrivendola, noi arranchiamo leggendola e rileggendola. Non è la stessa cosa, non può essere la stessa cosa, ma continuiamo senza fine perché, aderendo fedelmente alle parole di Magris, dopo averlo letto e riletto guardiamo il mondo diversamente; da lui abbiamo imparato, come da pochi altri, che - come egli ha scritto - ognuno, ma veramente ognuno è il centro del mondo.
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