Cioran, per sfiorare la vetta e l'abisso
Leggerlo vuol dire mantenere la costante del pericolo. Una scrittura incandescente e lucidissima, senza mediazione, che punta dritta al cuore
Alberto Manguel, bibliofilo insaziabile, “nel 1964, sedicenne, lavorava in una celebre libreria anglotedesca di Buenos Aires, dove ogni pomeriggio passava Jorge Luis Borges, di ritorno dalla Biblioteca Nazionale. Un giorno lo scrittore, ormai cieco, chiese al giovane se fosse disposto a leggere per lui, la sera. Manguel accettò” e, come testimonia il risvolto di Con Borges (Adelphi, 2005) “racconta, con una passione tenuta a freno da un’affabile discrezione, l’ammaliante ironia di Borges, la sua passione per le epopee, per le saghe anglosassoni, Omero, i film gangster, i western, i romanzi polizieschi, la lingua tedesca e la mitologia dei bassifondi di Buenos Aires, le enciclopedie, le tigri e West Side Story, la repulsione per Proust, Mann, Tolstoj e Pirandello”.
Lo stesso Manguel, in Diario di un lettore (Archinto, 2006), confessa: “Ci sono libri che scorriamo con gioia, dimenticandoci di una pagina mentre passiamo alla successiva; ce ne sono altri che leggiamo con venerazione, senza osare acconsentire né dissentire; altri ancora che offrono mera informazione, precludendoci ogni commento; e libri che, avendoli amati profondamente nel tempo, possiamo ripetere, parola per parola, perché ormai li conosciamo, a memoria, e con il cuore. La lettura è una conversazione”.
Non ho mai avuto repulsione né paura di un libro. Anche davanti ai più pericolosi, ai più scabrosi, sono sempre andato fino in fondo. Eppure uno di loro, dopo quindici pagine, mi costrinse alla fuga. Una fuga senza esitazione, un’azione senza pensiero. Come quando ti trovi di fronte una tigre e non hai proprio l’ardire di pensare alla filosofia. Scappi, a gambe levate, più veloce della luce, guidato dall’istinto di sopravvivenza, interessato soltanto a salvare la tua pellaccia. Quel libro fu Sommario di decomposizione di Emil Cioran, uno che i libri non li possedeva affatto. Neppure uno. Li leggeva in biblioteca. Ebbene, dopo quindici-pagine-quindici il precipizio, l’abisso, la fine erano davanti ai miei occhi. Una scrittura incandescente e lucidissima, senza mediazione, che punta dritta al cuore. Ma non al cuore del lettore (ché Cioran scrisse sempre per sé, per liberare la propria anima dalla sofferenza che l’attanagliava), bensì al cuore di Cioran stesso, che però è il cuore di tutti noi.
Ha dichiarato una signora al Quotidien de Paris: “Cioran scrive quello che ognuno si ripete sottovoce”. Com’è vero! E io, pur scappando, non ebbi voglia di ripetermi le cose sottovoce. Ebbi voglia di gridare: Oportet ut scandala eveniant. Sì, è opportuno che gli scandali avvengano. Per causare una reazione, una ribellione interiore, per consentire all’anima di emergere, di essere finalmente padrona del proprio spazio. Così, trovai il coraggio per riprendere il libro di Cioran e per non abbandonarlo più. Oggi lo porto sempre con me. Temevo che quel libro avesse la forza di distruggere le mie convinzioni profonde, le mie corazze, la mia vita. Invece, ebbe e ha la forza, come pochi altri, di insegnarmi ad amare la vita: “Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve allargarle. Un libro dev’essere un pericolo. Un libro che lascia il lettore uguale a com’era prima di leggerlo è un libro fallito. Il mio interesse va a ciò che è fragile, precario, a ciò che sta crollando, e anche a ciò che resiste alla tentazione del crollo, ma mantiene la costante del pericolo...”. È così. Con Cioran sfioro la vetta e l’abisso, mantenendo la costante del pericolo.
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