Giampaolo Pansa. Foto tratta da umbria24.it

L'ultimo viaggio di Pansa nell'Italia dei vinti

Davide D'Alessandro

Ennesima, maiuscola prova di un fuoriclasse della scrittura e del racconto. Il sangue dei bianchi, rossi e neri nella memoria di un ottantenne bambino

L’Italia è un Paese di sconfitti, ecco la scoperta fatta da Giampaolo Pansa durante l’ultimo viaggio tra i vinti. Un viaggio faticoso, snervante, pur sempre liberatorio. Un viaggio che tenta, per l’ennesima volta, quattordici anni dopo Il sangue dei vinti, di tornare sul luogo del delitto, facendosi guidare dalle storie e dalla memoria di un ottantenne bambino, dentro il negozio di mamma, ad ascoltar le donne, e per strada a seguire gli uomini che andavano a morire con la morte già annidata nell’anima e disegnata sul volto. Quante donne e quanti uomini incontrano la morte nei libri di Pansa, di Pansa il revisionista, di Pansa il rinnegato, e non sono i morti dei romanzi, i morti messi in scena ad arte per commuovere, per sconvolgere il lettore! Sono i morti della morte vera, cruenta, data per vendetta, per chiudere pratiche e fatture che non si chiuderanno mai, che alcuno smetterà di pagare, né vinto né vincitore.

Il vinto è l’oggetto di ricerca di questo fuoriclasse della scrittura e del racconto, impasto ben riuscito di innata curiosità giornalistica e autentica disciplina di studioso, ma è un vinto che si estende, che copre la gamma infinita dei colori politici e della nostra immaginazione. Non è più soltanto il vinto nero, il fascista piegato dal vincitore, ma anche il bianco e il rosso, come recita il titolo del libro. Il vinto si espande e copre l’intero parco umano perché nessuno è risparmiato dalla follia omicida, non ci sono sconti, non fa sconti la guerra, civile o meno. Pansa ha ancora la forza, e la grandezza sempre, di tornare indietro per restituirci un presente smemorato, parziale, difettoso con i ricordi di sangue, con la malvagità, con la crudeltà, bisognoso di lavare, frettolosamente, ciò che non avremmo dovuto sapere, che non avremmo dovuto raccontare e raccontarci. Ma il male si racconta da sé, trae energia dal suo interno, riemerge prepotentemente da anfratti bui e inaspettati, da lettere nascoste, dal taciuto che non può più tacere e si serve di una penna, di una meravigliosa penna, strumento di avvicinamento alla verità, per recuperare materiali obbrobriosi finiti nei fondali profondi e dimenticati della storia.

L’impotenza del potente, la psicopatologia del sopravvissuto canettiano che si crede eterno, il partito e l’ideologia che tutto schiacciano e divorano, necessitano di uno sguardo lucido e sereno, degli occhi del fanciullo che non mentono, della fedeltà a chi è caduto, di qua e di là, della liberazione dalle strumentalizzazioni di una propaganda becera e senza fine. La libertà di Pansa (autore di una tesi di laurea come non se ne fanno più, oltre seicento pagine), non accademico, senza cattedra se non quella della casa toscana sulla quale continua a chinarsi da mane a sera, ci consente non di fare i conti (poiché dovremmo smetterla di pretendere che altri, sempre gli altri, facciano i conti), ma di osservare senza pregiudizio e senza benda, senza la maglietta indossata per andare in curva a gridare la nostra partigianeria, ciò che si svela e rivela senza mistero, ciò di cui è capace l’uomo, ogni uomo, di ogni ordine, colore e grado. Poi, dopo la lettura, dopo la visione, non sei più lo stesso, non puoi essere più lo stesso. Ma non devi cantare vittoria, perché sempre uomo sei, sempre uomo rimani. E puoi tornare a sbagliare, a vendicarti di nuovo, a stuprare di nuovo, a uccidere di nuovo, perché l’uomo dimentica in pochi giorni. Anche di aver letto l’ultimo, magnifico Viaggio tra i vinti di Pansa. E sarebbe un peccato.