Emanuele Severino, filosofo eterno
Dal dialogo con Marcello Veneziani alle considerazioni sul pensiero forte, fino all’autentico dramma a due protagonisti evocato da Massimo Cacciari. L’altro è Martin Heidegger…
Sposto in modo maldestro un libro dallo scaffale della libreria e una pila mi viene addosso. Tendo le braccia, con istinto protettivo, per fermarne la caduta, come se i libri fossero figli, ma riesco a salvarne soltanto uno: La legna e la cenere di Emanuele Severino. Gli altri precipitano rovinosamente a terra e forse non è un caso. Severino è il massimo filosofo italiano vivente, definizione persino riduttiva poiché andrebbe allargata almeno a tutto il secolo scorso. Il libro che riprendo tra le mani, edito da Rizzoli, è del 2000 e presenta discussioni sul significato dell’esistenza, interlocuzioni con altri filosofi e studiosi di rilievo nazionale e internazionale. La prima, tanto per gradire, è con Hans-Georg Gadamer sul pensiero greco e la scienza moderna. No, non è stato un caso aver afferrato quel libro, perché giorni fa avevo finito di rileggere l’eccellente ritratto che a Severino ha dedicato Marcello Veneziani in Imperdonabili. Cento ritratti di maestri sconvenienti. Novantasette sono morti e tre ancora viventi: Severino, Alain de Benoist e Roger Scruton. Ma il profilo su Severino è l’unico scritto con la partecipazione diretta del filosofo bresciano che, avendolo letto in anteprima, ha voluto fornire all’autore qualche utile chiarimento. Il dialogo che ne è venuto fuori, sull’impossibilità del diventar altro e da altro, è una breve, efficacissima dimostrazione di un pensiero forte che si erge e svetta fra tanti pensieri deboli o inesistenti.
A Veneziani che, pur riconoscendo la sua teoria come granitica e conchiusa, solleva l’obiezione di un pensiero poggiante su un atto originario di fede, il tutto eterno, Severino replica: «Mi sembra quanto mai opportuno il suo qualificare come “pensiero forte” il mio discorso filosofico (sebbene sia forte in senso diverso da come è stata forte la tradizione epistemico-metafisica). Proprio per questo, sin dall’inizio, tale discorso ha inteso mostrare perché esso non è una fede, cioè in che cosa determinatamente consiste il non esser fede ed essere la dimensione incontrovertibile del sapere, il “destino della verità”. All’interno del destino appare anche quell’eterno che è la non verità, e appare la necessità del suo apparire, del suo mostrarsi via via fino all’apparire della civiltà della tecnica, destinata a cambiare la storia dell’uomo. Culmine dell’errare. Nel destino appare l’inevitabilità del succedersi (e in questo senso dei cambiamenti) delle forme dell’errare. All’interno del destino appare soprattutto che la morte è un evento (un eterno) che accade all’interno dell’eterna essenza dell’uomo. Tale essenza è aperta al sopraggiungere infinito degli eterni e della Gioia. Una situazione che, certo, “non è umanamente possibile”, ma nel senso che ognuno di noi è essenzialmente più di ciò che vien chiamato “uomo”. (Ed è l’”uomo” così inteso a credere che la creazione e la distruzione delle cose sia “osservabile”, “sperimentabile”)».
Ha scritto Salvatore Natoli: «Le tesi di Severino, fin dall’inizio, non mi hanno mai del tutto convinto, ma i modi del suo argomentare erano cogenti e anche se non mi persuadevano nel merito non era facile confutarlo. Se di Severino non ho condiviso la filosofia, ne sono stato segnato come stile di pensiero». Per Severino, l’uomo è re ma si crede mendicante. Cerca rimedi, e illusioni, perché non sa di essere eterno. Una malattia lo affligge. Gli è stato inculcato che viene dal nulla e tornerà nel nulla. Invece, la morte non è annientamento. Il corpo che si disfa è l’apparire di stati o istanti successivi, un uscire dall’esperienza. Ciò che non appare più non può essere definito nulla. Severino spesso fa ricorso al classico esempio della legna e della cenere, “metafora appropriata” dell’esistenza umana, ritenendo «la nostra cultura ancora lontana dal comprendere che cosa propriamente significhi l’affermazione che l’uomo (ma, poi, ogni cosa) è legna che diventa cenere».
Quando Severino lasciò l’insegnamento universitario, Massimo Cacciari scrisse: «Caro Professore, fu soltanto dopo la pubblicazione del mio Krisis, nel 1976, che lessi per la prima volta le sue fondamentali opere degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma credo che proprio la distanza della mia formazione filosofica e delle mie prime esperienze culturali e politiche dal suo percorso di studioso e dall'ambiente in cui esso maturò, mi abbia permesso di avvicinarmi, forse più di altri, al significato davvero decisivo che il suo pensiero riveste per la filosofia del Novecento. Finché la “storia” della filosofia contemporanea continuerà ad essere “giocata” o all'interno della “linea” nietzschiana-heideggeriana-ermeneutica, o nell'opposizione tra questa e quella analitica, temo non ne risulterà mai comprensibile il vero problema. Esso risulta evidente, a mio avviso, soltanto sulla base di una radicale contraddizione, di un autentico dramma a due protagonisti: Heidegger e Severino. Si tratta di una relazione inconciliabile, di un aut-aut. Quando finiranno le chiacchiere e confusioni alla moda, quando si potrà studiare la nostra epoca da una “buona” distanza, non dubito che tale decisione apparirà il problema fondamentale della nostra filosofia - e non solo. Heidegger - senza alcuna distinzione tra le varie fasi del suo pensiero - coglie tutta l'intrinseca debolezza dell'antiplatonismo idealistico e nietzschiano, per svilupparlo (lungi dal negarlo!), coerentemente e radicalmente, in un grandioso anti-Parmenide. L'opera di Severino (mille miglia oltre ogni astratta polemica) rappresenta l'altro polo. Davvero, ogni altra posizione sembra oggi “costretta” nella forma di questa polarità. Non credo, caro Professore, che aver compreso la sua lezione significhi semplicemente esplorare i contorni di tale polarità e saggiarne le conseguenze. Significa affrontarne la sua pretesa definitività, il suo “consummatum est”. La strada finisce anche giungendo alla mèta - anch'essa è aporia. E l'aporia può essere nuovo inizio. Su questo “scommettono” i suoi migliori allievi, io credo. Ne segua benevolmente l'improbus labor, senza mai consolarne debolezze e contraddizioni».
Sono trascorsi sedici anni. Mentre mi accingo a leggere il libro di Luca Mauceri, La hybris originaria. Massimo Cacciari ed Emanuele Severino, le chiacchiere e le confusioni alla moda non sono ancora finite, anzi direi che sono eterne. Ma anche Severino, con il suo pensiero forte, è eterno e non ha fretta. L’autentico dramma a due protagonisti, Heidegger e Severino, è ancora davanti a noi. Sostengo ardentemente il secondo. Lo leggo e lo rileggo. Scelgo il secondo, si afferma il secondo. Il secondo è primo. Eternamente primo. Un filosofo eterno.
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