Adair Turner

E se votassimo Adair Turner?

Davide D'Alessandro

Mentre tutti promettono tutto rischiando di mantenere poco o nulla, un libro di Adair Turner, ancora attuale, ricorda il liberalismo redistributivo. Il mercato sia inserito in uno Stato che lo sostenga e che non deleghi o smantelli il suo ruolo sociale

 

La politica e i politici. Il servizio pubblico e il servizio privato. Il tanto promesso e il poco mantenuto. La speranza e l’attesa dei cittadini, la delusione del risultato. La politica occultata, offesa, negata dai politici. Chi scrive, sia chiaro, non è lontano dalla politica, anzi vi è dentro, ne rivendica il primato, perché tutto è politica e i processi vanno governati, ma vorrebbe, come tanti di voi, un’altra politica, perché ritiene che un’altra politica sia possibile, che la Politica sia possibile. Come la Globalizzazione. Ma una Globalizzazione guidata, governata dalla Politica. Non senza Politica.

Per Massimo Cacciari, la politica sta in mezzo alla pluralità insuperabile nella polis e deve governarla, poiché la politica ha a che fare con molti (molteplicità) ed è fisiologicamente legata al più (polis, populus). Penso a Enzo Bianchi, il priore di Bose che, ricordando la figura dell’Abbé Pierre, ha scritto che l’uomo stava in mezzo e insieme. Dunque, in mezzo e insieme, accettando il pulito e il lurido, le amicizie e i conflitti. Anzi, sviluppando i conflitti e le diversità per raccontare, vivere e governare la pluralità. Che cosa ha fatto la tanto vituperata globalizzazione se non, come sostiene Aldo Bonomi, mutato e disarticolato le forme produttive? Dalla prossimità alla simultaneità di spazio e tempo, mettendo in crisi lo Stato-Nazione. Siamo precipitati nel gorgo, nella terra di nessuno, dove la rendita, la sicurezza, la stabilità vanno trasformate in ingegno per riconfigurare nuovi percorsi. Così ci è stato detto, dagli economisti e dai politici, italiani e del mondo intero, ma è stato uno scrittore, prima di entrare in Parlamento, a raccontarci la crisi di una “globalizzazione senza politica", di una crisi vissuta sulla pelle: la crisi di Prato, della sua antica azienda venduta nel 2004, dell’industria manifatturiera, di un mondo un tempo florido, ebbro di ricchezza, poi povero, declinante, a pezzi.

Ha scritto Edoardo Nesi: «È questa la nostra storia. La storia di milioni di persone tradite anche e soprattutto dai loro politici, che d’economia si sono occupati solo per amministrare ogni tanto, a seconda di chi vincesse le elezioni, condoni tombali o tosature radicali, e intanto vergavano in gran silenzio le centinaia di firme in calce ai trattati che avrebbero scotennato l’industria manifatturiera italiana. Nemmeno un referendum, nemmeno uno sciopero, nemmeno una manifestazione di piazza. Nemmeno una legge, nemmeno un progetto di legge, nemmeno un’interrogazione parlamentare. Nemmeno un digiuno. Nemmeno un incatenamento davanti a Montecitorio. Nemmeno una di quelle miserande piazzate in televisione. Nemmeno un appello, una petizione, una raccolta di firme per difendere il posto di lavoro di quei milioni di italiani che oggi si ritrovano in balia di una versione nuovissima e crudele e anabolizzata del libero mercato». E di un’assenza, l’assenza della politica. Continua Nesi: «Lo sapevano, i nostri politici, cosa vuol dire concorrenza? Sapevano quanto può essere sano quel termine? Sapevano quanto bene può fare a un mercato? Ma che concorrenza ci può essere col braccio economico di una dittatura?».

Eppure, c'è un altro libro che occorre riprendere tra le mani: Just capital. Critica del capitalismo globale di Adair Turner. Edito da Laterza nel 2002, ci aiuta a comprendere dove siamo andati negli ultimi anni e dove stiamo andando, soprattutto se non dimentichiamo, come annotano Innocenzo Cipolletta e Carlo Trigilia, che il sottotitolo dell'edizione inglese recita The Liberal Economy e «non implica alcuna critica al capitalismo né tantomeno all'economia di mercato nell'era della globalizzazione, come invece sembra implicito nella traduzione italiana. Anzi Turner aderisce a pieno alla tesi dell'economia di mercato e vuole definire cosa sia veramente un'economia liberale, abbattendo alcuni aneddoti e luoghi comuni che non sono veri».

In effetti, Turner disconferma alcuni luoghi comuni dell’economia, come quello della competitività mondiale. L’autore ritiene che non abbia alcun senso rendere i paesi più competitivi. Come scrive Ralph Dahrendorf nella prefazione del libro, anche il concetto di globalizzazione cade sotto i suoi strali e questo perché, fa notare Turner, molti dei bisogni sono locali, e non globali, per cui i mercati globali rendono solo meno costosi i prodotti scambiati, riducendo il valore del commercio mondiale. Le scelte difficili, che stanno sotto i nostri occhi, riguardano: la disuguaglianza crescente, un maggior bisogno di flessibilità, un notevole aumento della domanda di servizi pubblici essenziali, la maggior domanda di deregulation e i conflitti tra sviluppo fisico e ambiente. Si tratta di temi nazionali, la cui competenza è dei governi. La questione è politica e non economica e lo Stato-nazione è chiamato, ancora una volta, a essere il vero artefice della riforma. Il libro di Turner pone in essere anche sollecitanti contributi: le forze della globalizzazione non sono il nuovo “spirito del mondo”; non è vero che la competitività nei mercati globali impone di ridurre la portata del welfare e di aumentare la flessibilità; non è vero che per stimolare l’iniziativa privata gli stati debbano ridurre la sfera pubblica, in primis le tasse; il pubblico e il privato non sono necessariamente incompatibili.

Inoltre, Turner afferma che in Europa non esiste un modello sociale continentale, ma molti modelli nazionali che hanno in comune gli obiettivi generali. La stessa unione monetaria non è un toccasana in grado di eliminare sic et simpliciter tutti i problemi: ha effetti vantaggiosi, ma anche effetti perversi. A ogni modo, non dobbiamo dubitare del mercato come la guida migliore allo sviluppo economico e alla creazione della ricchezza. Quel che conta, però, non è tanto l’elevato Pil, ma il fatto che il mercato sia inserito in uno Stato che lo sostenga e che, soprattutto, non deleghi o, peggio, smantelli il suo ruolo sociale. La formula migliore, per uno Stato del genere, potrebbe essere quella del “liberalismo redistributivo”, che appiattisca la forbice della disuguaglianza tra ricchi e poveri, permettendo a tutti la partecipazione alla produzione di beni disponibili.

Per Turner, oppositori e sostenitori del capitalismo globale condividono l’idea che la globalizzazione sia la chiave di forza per il cambiamento della vita economica e sociale nei paesi sviluppati e in via di sviluppo. In realtà, la globalizzazione non è affatto il più importante cambiamento economico e sociale dei paesi sviluppati, perché alcuni nodi critici dipendono sempre dagli sviluppi interni dei paesi industrializzati. La globalizzazione, pertanto, non è il non plus ultra da molti invocato. È vero che l’economia di mercato resta l’unico fattore adeguato per realizzare il dinamismo economico (a cui deve sempre accompagnarsi lo scopo sociale), ma questo capitalismo ha bisogno di essere controllato e mitigato dalla sfera statale. Se in dieci anni, in merito alla globalizzazione, si è affermato tutto e il contrario di tutto, le osservazioni da fare sono le seguenti: viviamo in un mondo di crescita apparentemente inarrestabile del commercio globale; negli anni Novanta abbiamo assistito a un’esplosione del capitale globale e dei flussi finanziari; viviamo in un’epoca di competizione globale sempre crescente.

Queste osservazioni sembrano giustificare le certezze della teoria della globalizzazione, oltre che della superiorità e dell’inevitabilità del libero mercato. Come conseguenza, si dice che il welfare sia ormai una necessità passata, un lusso che non possiamo più permetterci. Il sistema redistributivo, infatti, non è più alla portata delle economie occidentali. Turner critica tali affermazioni, come il semplicistico ragionamento della sinistra, secondo cui globalizzazione e libero mercato sarebbero i soli responsabili di tanti mali sociali. Egli sostiene che, se pure una parte della nostra economia è sempre più aperta al mercato mondiale e alla competizione, un’altra pingue parte sfugge agli scambi, non essendo commercializzabile. L’economia sta diventando meno e non più globale. Oltretutto, è sbagliato credere che la competizione delle economie emergenti possa minacciare il tenore di vita sostenibile del mondo sviluppato, erodendo il welfare e causando alti livelli di disoccupazione. L’idea che la competizione globale limiti la sostenibilità della spesa per il welfare ha buoni fondamenti, ma è decisamente esagerata. Il modello europeo è chiamato a cambiare gli strumenti, non gli obiettivi. Esso, come Turner si premura di dimostrare nel libro, dovrebbe liberalizzare i mercati del lavoro per incoraggiare la creazione di nuovi posti, facendo sì che lo Stato si allontani da tutte quelle attività che non hanno alcun scopo sociale, senza sopprimere i livelli elevati di beni collettivi o una giusta redistribuzione dei redditi. Turner sostiene, infine, che il modello sociale europeo non deve essere respinto, ma solo riformato, nel nome di una filosofia né socialista, né conservatrice, che, nel nome di un liberalismo di mercato ridistribuito e controllato, «riconosce gli immensi vantaggi del mercato, ma anche la necessità e la possibilità di un’azione di governo per raggiungere gli obiettivi desiderabili che il mercato da solo non è in grado di realizzare».