Giampiero Mughini, la coscienza delle parole
Non tutti i libri sono da pubblicare e da leggere, ma i suoi sì. Da Moro a “Compagni addio” fino al “caso Svevo”, pagine dove s’annidano magie, pagine che ti restano addosso
Nel 1987 lessi Compagni, addio. Lettera aperta alla sinistra, il magistrale libro di Giampiero Mughini che tracciava una linea netta, definitiva, con un mondo finito e sepolto, con il mondo che era stato il suo mondo. Mi piacque tanto. Gli telefonai e chiesi di incontrarlo. Mi accolse in uno stanzino di via Sicilia, nella redazione di Panorama, incuriosito dalla mia curiosità. Non era ancora il Mughini televisivo, il Mughini della Juventus e di aborrrrrro. Aveva la coscienza delle parole, la finezza dello scrittore, già ampiamente dimostrate con Gli intellettuali e il caso Moro. Da allora non ho mai perso un suo libro, perché «non c’è spettacolo più bello al mondo di una parete colma di libri. Tutti da pubblicare e tutti da leggere». Non è vero, ovviamente, che siano tutti da pubblicare e tutti da leggere, ma i suoi sì. Tra i più riusciti, tra i più amati, In una città atta agli eroi e ai suicidi. Trieste e il “caso Svevo”. Edito da Bompiani nel 2011, incantevole, mi è rimasto addosso, canterebbe Gino Paoli, «come una camicia, come un cappotto, come una tasca piena, come un bottone, come una foglia morta, come un rimpianto».
Tra quelle pagine s’annidano magie, forse è la magia di Trieste, forse la nostalgia per qualcosa che avresti voluto vivere e non hai vissuto, forse il richiamo di una strada, del mare, di una poesia di Saba. Scrive Mughini: «In tutto e per tutto sono stato a Trieste cinque o sei giorni della mia vita, in occasioni diverse e sempre per motivi di lavoro. Su tutti una sera tarda (o forse era già notte?) in cui una bionda e bella ragazza giuliana mi condusse per mano lungo le viuzze del ghetto, al modo di una cerimonia dell’assaporamento della triestinità che entrambi volevamo scarna ma intensa. Sostammo innanzi alla serranda sprangata della libreria appartenuta a Umberto Saba. Per le strade di quell’angolo di Trieste non c’era una persona, non una voce, non un rumore. Solo una sorta di fruscio. Un frusciare come di anime che non si davano pace, almeno così a me parve».
Posto che mettere i libri in graduatoria è come scegliere una donna fra mille splendide donne, se La coscienza di Zeno, il capolavoro di Italo Svevo, non è il più grande libro del Novecento, ci va molto vicino. Un libro, ammonisce Franz Kafka, o ti colpisce come un pugno o non è niente. La coscienza di Zeno colpisce come un pugno e lascia addosso i segni di uno scherzo finito male. Apre voragini al nostro interno, intreccia salute e malattia, dissolve quanto era stato ingenuamente costruito. Zeno Cosini è tutti noi. Com’è stato tutti noi Alberto Sordi in tanti dei suoi film.
Chi è quest’uomo inetto a vivere, angosciato dalla quotidianità? E che cos’è questa psicoanalisi che irrompe nella letteratura con la presunzione di modificare l’uomo, di volgerlo al meglio? È possibile? Fu Eugenio Montale a scrivere che Svevo spiega, con ironia, chi siamo e dove siamo. Anticipa, con l’intuito del genio, la dissoluzione dell’io, la friabilità della persona, il vuoto esistenziale. Leggiamo Claudio Magris: «La profondità, diceva Hofmannsthal, si nasconde alla superficie, nelle cose apparentemente più consuete e perfino banali della quotidianità, che dissimulano l’abisso della vita. Forse nessuno ha saputo rappresentare questa profondità vertiginosa e amabilmente elusa come Italo Svevo».
Per Giampiero Mughini, Zeno è un «romanzo della maturità di Svevo, un romanzo che aveva cominciato a scrivere nel 1919 ma che aveva covato molto più a lungo. E dunque un romanzo più ricco e più complesso e più costruito degli altri due. È un romanzo dove si compenetrano più piani, e anche se Freud e la sua teoretica ci entrano piuttosto no che sì, ché anzi di quella teoretica lo Svevo scrittore fa un uso sarcastico. Ma è un romanzo dove non tutto rifulge allo stesso modo. Talvolta è come se Svevo ti stia spingendo in una direzione e poi, d’improvviso e senza nemmeno farti prender fiato, ti spinga in un’altra direzione (…). Ad apprezzare in tutta la sua ricchezza e novità lo Zeno devi sapere che cosa stai leggendo e chi stai leggendo. La cosa migliore da fare? Leggerlo e rileggerlo. Come si addice ai classici». È ciò che ho fatto con Svevo e con il suo libro sul “caso Svevo”, che mi è rimasto addosso, canterebbe Paoli, «come le mie mani, come un colore, come la mia voce, la mia stanchezza, come una gioia nuova, come un regalo».
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