Auto da fé, commedia umana dei folli
Il capolavoro di Elias Canetti è la distanza siderale tra la morte e la vita, è la chiave per decifrarle entrambe, per tenerle nettamente separate
«Il mondo è una prigione dove è preferibile stare in cella di isolamento». Il celebre aforisma di Karl Kraus non sarebbe dispiaciuto a Peter Kien, poiché il protagonista di Auto da fé, il celebre romanzo di Elias Canetti, è la distanza siderale tra la morte e la vita, è la chiave per decifrarle entrambe, per tenerle nettamente separate, per mostrare al mondo, agli uomini del mondo, che una testa senza mondo è un labirinto senza uscita, mentre la vita è sempre fuori, perché è fuori, all’aperto, che palpita la vita.
Per Ferdinando Castelli, «non è un’opera facile, tanto meno consolatoria; ha una struttura complessa, gioca su diversi registri – onirico, realistico, cerebrale, satirico – senza spezzare l’unità dell’azione; la trasparenza stilistica lascia intravedere profondità di significato, molte pagine nascondono forti risonanze culturali che richiedono attenzione e preparazione. Dalle cinquecentotrenta pagine vien fuori una sequenza di fotogrammi, dalle tinte crude e irridenti, che rimandano ora al realismo amaro del cinema di Buñuel, ora al simbolismo funereo dei racconti di Kafka. Vien fuori cioè l’immagine della commedia umana dei folli. Canetti la descrive freddamente, col distacco di un analista di laboratorio, senza nulla concedere al patetico o al consolatorio».
Kien è un eccellente sinologo ma è una vita che non sboccia, che non viene alla luce, che non opera. I libri nutrono la sua testa, ma se la testa non si compromette con il mondo, se è incapace di far dialogare teoria e pratica, pensiero e relazione, si consegna alla deflagrazione. Quando il fuoco sta per investirlo, dopo aver distrutto la sua impareggiabile biblioteca, Kien scoppia in una grande risata, come non aveva mai fatto nel corso della sua vita, proprio perché non era stata una vita. La vita è relazione, scambio, contaminazione, pianto e riso. Se hai paura di essere toccato, non vivi. Se hai paura delle donne, dell’altra metà del mondo, non vivi. Se il tuo sguardo è perennemente rivolto davanti all’unico specchio, che rimanda inevitabilmente il vuoto, l’angoscia, l’impossibilità di ospitare altre figure, non vivi. La pluralità delle voci infastidisce Kien, abituato ad ascoltare una sola voce, la malattia della sua voce. La riduzione a uno, la chiusura asfittica, lo rinchiudono in un solipsismo tragico ma grottescamente tratteggiato da Canetti. Kien, il niente, finisce per essere tutto, per illuminare non il suo percorso teorico, ma la matrice di vita, di come intendere la vita. Canetti, attraverso Kien, non smette di fissare la morte, di mostrarne la sua bruttura, il suo marchio macabro, la sua parola afasica. Non vedete, sembra dirci, non vi accorgete, sembra urlarci, che bocca piena è la morte? Piena di vuoto, disarticolante, priva di senso, morte della morte.
I passi di Kien vanno indietro, come quelli del gambero, riconducono l’uomo mai sbocciato nel ventre materno, dove tante erano le attese di vita, di fuoriuscita, di ingresso in un nuovo luogo, certo meno ospitale, ma dove ci si forma e ci si sostanzia, ci si studia e ci si scontra, ci s’innamora e ci si fa padri, ci si invecchia e ci si muore, dopo essere stati, dopo aver vissuto, dopo aver lasciato una traccia, seppur lieve, del proprio passaggio. Il cuore di Kien non pulsa, le lancette dell’orologio sono ferme. Eppure Kien esiste, non vive ma esiste, e non è solo. Potrebbe fare massa, con tanti altri Kien, se non odiasse anche la massa. Kien costruisce, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, la propria prigione. Innalza i muri di cemento armato, spegne tutte le luci e tutte le voci. Vuole che il silenzio lo divori. Ma il silenzio non perdona e presto gli si rivolta contro, alimentando i fantasmi che mai smetteranno di andarlo a cercare, a rendergli conto della sua sana follia, della sua rinuncia, del suo mancato essere, della sua morte.
Viene preso alla gola, il povero Kien, e quando la testa senza mondo diviene mondo senza testa, si fanno beffa di lui, lo ridicolizzano. Non è buono per il mondo, abitato da una compagnia di giro poco raccomandabile, pronta a togliergli, non essendo mai nato, anche ciò che non ha. Neppure un fratello che sia psichiatra basta a salvarlo, perché non può salvarsi chi non è nato. Solo la vita può salvarlo. È la vita, sepolta dentro di lui, che prorompe, che spezza le catene, che appicca il fuoco, che vuole bruciare tutto ciò che gli ha impedito di essere vita, che vuole eliminarlo, ucciderlo, perché solo la vita può vendicarsi di lui, che è stato la morte.
Si può combattere la morte? Canetti l’ha combattuta senza mai darle tregua. Ne ha fatto una ragione di vita, l’unica ragione di vita. La sua radiografia della morte è esemplare: «La morte ha un modo tutto suo di insinuarsi furtivamente tra i suoi nemici, di minare la loro volontà di combattere, di demoralizzarli: torna sempre a presentarsi come soluzione radicale, fa notare che al di fuori di lei non c’è nessuna soluzione vera. Chi vive con lo sguardo di odio puntato fisso contro di lei, si avvezza a lei come all’unico zero. Ma come cresce quello zero! Come ci si fida d’improvviso di esso, poiché non ci si può fidare di altro! Ecco che ci si dice: questo, questo ci rimane, perché altrimenti non rimane nulla. La morte abbatte tutto ciò che uno ha vicino, e quando si è sopraffatti dal dolore dice sorridendo: non sei affatto così impotente come ti figuri, puoi abbattere anche te stesso, e il tuo dolore con te. La morte appresta all’uomo i dolori dai quali essa stessa poi può liberare. Quale giudice torturatore è mai stato più esperto del suo mestiere?».
Canetti non ammette la morte. Non solo la sua, ma quella di tutti: «Tutte le morti che finora sono avvenute altro non sono che migliaia e migliaia di omicidi legali che io non posso autorizzare […]. Io non ammetto la morte. Il fatto che muoiano anche le pulci e le zanzare non fa sì che la morte mi appaia più concepibile dell’atroce storia del peccato originale». Secondo Castelli, per Canetti la morte è «il male primordiale, uno scandalo, un insulto, un’ingiustizia; avvelena la realtà poiché essa non tace su nulla». Per Canetti, dunque, occorre «maledire la morte, odiare la morte, sputare in faccia alla morte, cacciare la morte dal mondo. Noi invece l’abbiamo accolta e addomesticata con risultati orrendi. Perché mai non dovrebbero esserci gli assassini se all’uomo morire sembra adeguato, e non se ne vergogna, e ha incorporato la morte nelle sue istituzioni come se essa fosse il loro migliore, più sicuro e ragionevole fondamento?».
Canetti muore e il giorno dopo Claudio Magris scrive: «Fra le lettere che, in tutti questi anni, ho ricevuto da Canetti, ce n’è soprattutto una che mi viene spesso in mente e di cui mi sono subito ricordato quando, ieri mattina, ho saputo della sua morte. In quella lettera Canetti, vedovo da molti anni di Veza, la prima moglie cui ha continuato a dedicare i suoi libri, mi annunciava il matrimonio con Hera, la discreta e adorabile creatura che è poi vissuta accanto a lui, nella sua ombra, sino alla sua precoce scomparsa, dandogli anche una figlia. In quella lettera Canetti quasi si giustificava, come se sposarsi nuovamente non perché il matrimonio precedente è fallito, ma perché il compagno o compagna della vita è morto, costituisse un’ infedeltà più grave di quella verso una persona viva, quasi una accettazione della morte, la sostituzione di un irripetibile vivente con un altro. Mi ha sempre molto colpito quella lettera, che ovviamente non diminuiva l’affetto per Hera né il valore del secondo matrimonio, ma esprimeva, calato nella vita, quel rifiuto della morte e di ogni compromesso e accomodamento con essa che è uno dei temi di Canetti e fa di lui un grande, anomalo scrittore; almeno per un libro, Auto da fé, uno dei grandissimi del Novecento, un interprete e avversario spietato di ogni trionfante pulsione di morte, di ogni oblio. In molte sue opere, soprattutto in Massa e potere, ma anche in Potere e sopravvivenza, negli aforismi della Provincia dell’uomo, nei drammi, Canetti ha cercato di stanare come un segugio l’istinto di morte, di smascherarlo nelle mille forme che esso assume, di salvare ogni palpito di vita e il fluire della metamorfosi dal dominio che li irrigidisce e li annienta. Sembrava talora che si sentisse il custode degli uomini contro la morte e che si sforzasse di accogliere e conservare in sé i volti delle persone che incontrava, per sottrarli alla grande nemica».
Il Foglio sportivo - in corpore sano