La Giornata della Memoria, la forza della vita
Imre Kertész, Sami Modiano, Herta Müller: per non dimenticare servono racconti, testimonianze, libri e film, come l'ultimo di Walter Veltroni
Imre Kertész, deportato ad Auschwitz nel 1944 e liberato a Buchenwald nel 1945, Nobel per la Letteratura nel 2002, appunta nel Diario dalla galera: «Gli uomini vivono la liberazione dalla tirannia come un crollo. Cosa succederebbe allora se li gettassero nella libertà!». Il suo pensiero sulla morte è fulminante: «La paura della morte è una sensazione che richiama con benevolenza la nostra attenzione al fatto che non pensiamo abbastanza alla morte». E prosegue: «Quanto al fatto che “risorgeremo”: ma se io non ho ancora mai vissuto. Quanto al fatto che ci sia una vita nell’aldilà: ma se io in questo mondo non ho ancora mai vissuto. Quanto al fatto che la nostra anima sia immortale: ma se non sono mai stato in possesso né del mio intelletto né della mia anima. Io: questa è una certa condizione a metà, un adattarsi – null’altro. Oppure sì, ancora qualcosa: un essere assoggettati. – Fine del discorso».
Rileggo il suo Essere senza destino, quel passo paradossale e intenso che mi colpì alcuni anni fa, sempre a ridosso della Giornata della Memoria: «Non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d'ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell'intervallo tra i tormenti c'era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli "orrori": sebbene per me, forse, proprio questa sia l'esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno».
La forza della vita, perché ha forza, tanta forza, la vita, e resiste, si oppone, getta sempre il cuore oltre l'ostacolo. Rileggo Kertész e attendo di vedere il film di Walter Veltroni, Tutto davanti a questi occhi, la testimonianza di Sami Modiano, sopravvissuto ad Auschwitz, che oggi, a 87 anni, un po' stanco e un po' no, ancora si chiede: «Perché proprio io?». Aveva 13 anni. La sorella, Lucia, 16, è la prima a cedere: «Cercavo di vederla dall'altra parte del filo spinato. Una sera le lanciai, avvolto in un panno, un pezzo di pane. Lei prese il fagotto, ci mise il suo pezzo di pane e rilanciò il tutto. Aveva rinunciato al suo piccolo pasto per darlo a me. Continuava a farmi da mamma, la nostra l'avevamo persa poco prima della deportazione». Poi il padre, Giacobbe, prima di arrendersi, gli dice: «Tieni duro, tu ce la farai». E lui ce la fa. A 25 gradi sotto zero, crolla durante il cammino, i prigionieri lo raccolgono e lo lanciano su una montagna di corpi morti. Era svenuto: «Quando riaprii gli occhi, vidi una soldatessa russa, era un medico e mi stava avvolgendo in una coperta. In quel momento capisco di avercela fatta».
Che cosa vuol dire farcela, restare, sopravvivere? Modiano è netto: «Un sopravvissuto non è una persona normale. Ha una piaga che non si chiude. Ha dei silenzi, delle depressioni, degli incubi. Però io vivo e sono felice. In questi undici anni, da quando tornai per la prima volta ad Auschwitz, sono felicissimo perché parlo ai giovani e ho un riscontro positivo. Loro hanno bisogno, devono sapere. So che quando non ci sarò, ci saranno i ragazzi, e faranno in modo che questo non succederà mai più».
È importante che la memoria non muoia, che sia sempre presente, non soltanto nella …Giornata della Memoria. Servono i racconti, le testimonianze, i libri, i film. Serve la trasmissione del pensiero. Ce lo ricorda anche Herta Müller, Nobel nel 2009, letta e premiata in altri paesi, in Italia pubblicata nel lontano 1982 da Editori Riuniti, grazie alla scoperta di Fabrizio Rondolino, poi da un piccolo editore di Rovereto, Roberto Keller, che ha stampato Il paese delle prugne verdi in 1500 esemplari, vendendone 800! Chi ha avuto la fortuna di leggere quel libro sa che i quattro giovani uniti dal suicidio di Lola, la ragazza violentata dal professore di ginnastica, sotto un cielo reso tragicamente plumbeo dalla dittatura, ricorrono alla lettura proibita (come sono talvolta proibite l’amicizia e l’amore) perché almeno la memoria non muoia. Sono pagine grondanti il desiderio di libertà, di evasione, di vivere la propria storia lontano dall’occhio indiscreto del guardiano che controlla i tuoi passi, stronca le tue parole, fa sparire il tuo corpo, modula persino i tuoi respiri.
La Romania di Ceaucescu era un’unica torre, uno spaventoso Panopticon, per dirla con Jeremy Bentham, dove la Securitate, il servizio segreto alle dipendenze del partito, sorvegliava e puniva, puniva e sorvegliava. Proprio dalla Securitate, Müller, con il nome in codice “Cristina”, fu dichiarata «pericoloso nemico dello Stato, responsabile di distorsioni tendenziose della realtà del paese». Fu avvicinata, le fu chiesto di collaborare. All’epoca un romeno su due collaborava. Lei rifiutò e nel 1987 fuggì in Germania. Dopo la notizia del Nobel, ha dichiarato: «Mi sento libera perché so qual è la differenza tra lo svegliarsi al mattino e non sapere se alla sera sarai ancora viva e la vita di oggi. Ho tutto ancora nella testa. Ma la Germania mi ha salvata». Insieme alla lingua, la “lingua salvata” di Canetti, se è vero che ha scritto un saggio nel 2001 dal titolo Heimat ist was gesprochen wird (La patria è quella che si parla). È stata quella lingua a salvarla, a far giungere fino a noi i suoni, le voci, i silenzi, le miserie, gli orrori, le devastazioni di un altro regime criminale, tutto ciò che hanno visto gli splendidi occhi di Herta, come tutto ciò che hanno visto gli splendidi occhi di Sami.
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