La politica finisce, ecco quel che resta
Che cosa abbiamo fatto per meritarci le mirabolanti promesse mai mantenute, le insensate leggi elettorali, le riforme a parole, i capetti che stanno ai capi di una volta come la Maielletta all’Everest?
Pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1948, The Legacy of Italy, di Giuseppe Prezzolini, arrivò in Italia dieci anni dopo, edito da Vallecchi, con il titolo L'Italia finisce, ecco quel che resta. Era stato scritto per rendere edotti gli americani, dopo la fine della seconda guerra mondiale, sulle condizioni del nostro Paese. Anche la politica finisce, e cosa resta?
Resta la politica, come restò l’Italia dopo il libro di Prezzolini, ma è un’altra politica, un altro modo di intenderla e di (non) praticarla. Che cosa abbiamo fatto, ha scritto Galli della Loggia, per meritarci tutto questo? Che cosa abbiamo fatto per meritarci le mirabolanti promesse mai mantenute, le insensate leggi elettorali, le riforme a parole, la conquista del seggio come ultima speranza, i territori espropriati dai paracadutati, i capetti che stanno ai capi di una volta come la Maielletta all’Everest? Abbiamo assistito, chi agitando le parole, chi la forca, alla divisione del bene dal male, tutti gli uomini lindi e probi da una parte e tutti i delinquenti, o presunti, dall’altra. È accaduto con Tangentopoli, quando i reati emersero improvvisamente e insieme, eliminando e sostituendo una classe politica immensamente spregiudicata, ma profondamente capace di guidare il Paese dal ’48 dell’Italia che finisce di Prezzolini, con il vuoto, con l’assenza di pensiero, con la castrazione violenta e giudiziaria dei partiti, con l’esaltazione dell’uomo che si è fatto da sé, da sé e con l’aiuto della politica, con la personalizzazione, con i club (virtuali) al posto delle sezioni (vere), con i bambocci che cavalcano il presente senza la conoscenza del passato e l’immaginazione del futuro. Finì un mondo, ma un altro mai iniziò.
Ciriaco De Mita, uno dei protagonisti assoluti di quel mondo, lucidissimo ieri e oggi, a novant’anni, ancor di più, a Stefano Cappellini di Repubblica, in un’intervista da conservare come una reliquia, ha dichiarato: «Era falsa la rappresentazione di Tangentopoli come lo scontro tra il bene e il male. Gli uomini hanno un pezzo di immoralità, tutti. Poi la affrontano, la risolvono, a volte prevalgono, a volte soccombono. Ma nessuno è una vergine».
Dire che nessuno è una vergine non vuol dire, ovviamente, che bisogna rubare e delinquere, ma riconoscere che i santi stanno solo in paradiso, se c’è il paradiso, e in politica guai ad avere a che fare con chi si professa santo, con chi si ritiene immacolato. Non si stava meglio quando si stava peggio, ma si stava meglio quando si stava meglio, quando c’erano i tanti vituperati partiti, le tante intelligenze sparse di qua e di là, le tante liturgie che non erano inutili perdite di tempo, perché le realizzazioni di tempo hanno bisogno.
«Le manca molto la Dc?» ha chiesto Cappellini. E De Mita, da Nusco, un antico, piccolo paese che si distende tra le balze dell’Alta Irpinia (definizione di de Giovanni), ha precisato: «Manca anche a tanti comunisti con cui parlo tutti i giorni. La raffinatezza della Dc era nell’idea che la politica non si risolve in un programma di governo. Quelli che risolvono il problema prima, con gli elenchi delle cose da fare, barano. Le cose da fare le scegli nel momento in cui le puoi fare. È la grande lezione di Moro e De Gasperi».
Moro e De Gasperi? Chi erano costoro?
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