Il senso di Givone per l'infinito
Il filosofo italiano, partendo dal celebre dipinto di Caspar David Friedrich, ripercorre la storia di un pensiero e di un’immagine, di uno sgomento e di una scommessa. Da Leopardi a Pascal, da Schopenhauer a Nietzsche, sotto lo sguardo di De Chirico
Che cosa vedi quando pensi l’infinito? Che cosa vedi quando immagini l’infinito? Vedi Leopardi o Pascal? Il nulla o Dio? La scommessa è tutta qui, come in parte è qui la sostanza del nuovo libro di Sergio Givone (filosofo che poco appare e molto concede, filosofo di singolare valore), che il Mulino manda in libreria nella Collana Icone. Pensare per immagini, dopo Generare Dio di Massimo Cacciari e Regole e caso di Paolo Legrenzi.
Si parte da un dipinto a olio su tela. È il celebre Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich. Per dire del romanticismo, per dire dell’infinito, di un uomo che guarda oltre la contingenza, oltre l’orizzonte. Non è un esteta né un sognatore. Mira ad altro, ha sete di altro. Sa bene che l’infinito non si mostrerà, ma consente di essere pensato. E quando pensi, puoi illuderti, ma puoi anche scoprire un giorno di aver trovato. Un giorno. Ora non è dato sapere. Quella domanda, scrive Givone, è la nostra domanda, la domanda di sempre e per sempre: “Senonché Leopardi, a differenza di Hegel, vede in questa cosa un che di dilettevole. Secondo lui è precisamente l’equivoco in cui cadiamo a darci piacere. Prendiamo l’indefinito per l’infinito. Incapaci di concepire questo, ci soffermiamo su quello, e ne siamo sedotti”.
Per Pascal, “è possibile che l’infinito altro non sia che il nulla e il non senso, ma è possibile anche che l’infinito sia Dio, vale a dire la pienezza di senso, il senso ultimo di tutte le cose: tra queste due possibilità l’uomo è chiamato a decidersi, a scegliere in assenza di prove, a scommettere per l’una o per l’altra (donde l’angoscia, lo sgomento). Invece per Leopardi l’infinito è il nulla e nient’altro che il nulla, perché solo il nulla può essere al di là dello spazio e al di là del tempo, solo il nulla può smascherare come illusione ciò che è nello spazio e nel tempo – ne consegue che abbandonarsi al movimento della vita verso la morte è rilassante e benefico, in una parola piacevole”.
Ma sarà Giorgio De Chirico, con la sua pittura, a esprimere l’infinito come un tutto infinito, poiché “l’infinito non è e non può essere soltanto oggetto di contemplazione, ma deve essere accolto all’interno del nostro mondo, che nell’infinito ha il suo principio e la sua fine. In questo senso è necessario superare la contemplazione dell’infinito, andando oltre di essa, oltrepassarla”. Come hanno fatto Schopenhauer e Nietzsche, il primo in riferimento all’assoluto, il secondo all’eterno. Entrambi, secondo De Chirico, in grado di cogliere il profondo non senso della vita, entrambi impegnati nello sforzo di come tramutarlo in arte.
Chiude Givone: “Forse dovremmo prestare ascolto al suggerimento che ci viene da Kleist (nel suo apologo Sul teatro delle marionette), il quale osserva che non c’è viaggio che non sia un viaggio dall’infinito verso l’infinito”. Ed è questo eterno viaggiare a renderci vivi, spettatori e/o protagonisti di un’opera mai conclusa. L’infinito non è solo il punto d’arrivo possibile all’occhio del Viandante, infinito è anche il nostro sguardo che ammira quello sguardo. Siamo tutti su una nuda e buia roccia, siamo tutti fermi e in cammino. Siamo finiti nell’infinito.
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