Vladimir Jankélévitch, la consapevolezza di un limite
La vertigine dell’avventura, la lentezza della noia e la moderazione della serietà segnano i percorsi della vita che srotola i suoi fogli, che accade, che illumina e restituisce la sua finitezza fatta di atti ineffabili e inconoscibili, di una verità che sfugge, come sfugge il tempo
È una splendida avventura, non è mai noioso ed è sempre estremamente serio leggere Vladimir Jankélévitch che torna, per i tipi Einaudi, con L’avventura, la noia, la serietà, libro del lontano 1963, già pubblicato da Marietti nel 1991, impreziosito dalla traduzione di Carlo A. Bonadies, oggi ampiamente rivista.
Enrica Lisciani Petrini, nella pregevole introduzione, ricorda le difficoltà a farsi pubblicare di un autore un tempo trascurato, ora al centro di una considerazione non sospetta, ma indotta da un itinerario filosofico degno dei grandi saggisti, di chi ha scritto per essere discusso, con passione, nel XXI secolo, non trovando lettori nel XX. Scrive Lisciani Petrini: “Questo libro è quello che maggiormente ci mostra i temi che fin dall’inizio hanno attratto e hanno caratterizzato anche in seguito la riflessione del filosofo. Non a caso, del resto, esso si apre con un riferimento esplicito a Simmel, il quale verrà richiamato più volte lungo i diversi paragrafi, e si chiude con una finale tematizzazione di questioni squisitamente simmeliane. Accanto, ovviamente, agli altri autori canonici di Jankélévitch: oltre allo scontato Bergson, Pascal, Schelling, Plotino e così via”.
C’è Simmel dietro e dentro l’opera del filosofo ebreo di origine russa, “la propensione a interrogare frammenti della realtà circostante al fine di cogliere in essi – e solo in essi – la cifra della tessitura generale delle cose”. La vertigine dell’avventura, la lentezza della noia e la moderazione della serietà segnano i percorsi della vita che srotola i suoi fogli, che accade, che illumina e restituisce la sua finitezza fatta di atti ineffabili e inconoscibili, di una verità che sfugge, come sfugge il tempo e guai all’uomo o, peggio, al filosofo che discetta di infinito, di essere, di Dio, pensando di uguagliarlo, di porsi al suo fianco e magari, perché no, di sostituirsi a lui.
Attraverso l’avventura, la noia e la serietà è possibile scrutare nel segreto delle cose e nell’intimo formarsi di ogni singola vita, è possibile farsela, una vita, essendo “serio non prendere tutto sul serio”, lavorando sui margini, sui bordi perché anche lì, spesso, si annida il centro. Jankélévitch aiuta a recuperare la purezza del pensiero libero da condizionamenti, scevro dal banale supposto sapere. Jankélévitch è l’incontro con la pagina bianca da scrivere ogni giorno, per liberarla dal già noto, dal già conosciuto. Jankélévitch è un dialogo perenne con la morte per comprendere cos’è la vita: “Ecco cos’è la vita, che ha il colore della cenere, del mare grigio e dei lunghi giorni grigi. Questa vita in cui quasi niente è serio e che dobbiamo nondimeno prendere sul serio! Il serio grigiore non è, come il grigiore noioso, la decomposizione del colore e l’agonia delle tonalità pittoriche; è piuttosto la verità della nostra medianità. Se dobbiamo trovare espressamente qualcosa d’intermedio tra il ‘nero stendardo della malinconia’ e la screziatura della frivolezza, dovremo allora dire che questo qualcosa è il vessillo grigio; il vessillo grigio della serietà”.
Non cinquanta sfumature di grigio, ma mille. Mille sfumature di grigio per comprendere il mondo e la vita. O per illudersi di averli compresi. Jankélévitch è la consapevolezza di un limite. Leggerlo è fare i conti con questo limite.
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