Mughini e Pintor, che profumo quel libro!
A proposito di "Servabo. Memoria di fine secolo", oggetto sacro, pagine in grado di cambiarti la vita, di modificare lo sguardo verso l’anima e il mondo
Nel 1991 lessi d’un fiato Servabo. Memoria di fine secolo, le pagine di scrittura intensa e purissima di Luigi Pintor, e rimasi senza. Bastò l’incipit a rendermi come sacro il gioiello che avevo tra le mani: “In quel suo messaggio dall’oltretomba, che avrei preferito non ricevere, mio fratello racconta come la guerra gli mostrò il mondo in un’altra luce e decise della sua vita. Senza la guerra sarebbe rimasto uno scrittore e i viaggi e le amicizie, un impulso alla fantasia o l’incontro con una ragazza, avrebbero contato per lui più di ogni partito o dottrina. Avrebbe continuato a credere nell’esperienza individuale, nella storia dell’uomo solo, non avrebbe sacrificato le sue prerogative a una fede collettiva”.
Il fratello è Giaime, che trovò la morte su una mina. Aveva vent’anni: “La guerra s’intromise distruggendo quest’ordine e spingendolo a un’azione disperata. Quando scrisse quel messaggio sentiva vicina la morte, che arrivò tre giorni dopo, e quando io lo lessi non mi colpì perché esortava a una rivoluzione ma per come scompariva la sua giovinezza. Non conosco nessuno che abbia costruito e abbattuto se stesso con tanta rapidità”.
Capirete perché gioisco di una gioia profonda mentre leggo Che profumo quei libri. La biblioteca ideale di un figlio del Novecento, l’ennesima perla di Giampiero Mughini edita da Bompiani, e tra i libri posti al centro di un’autobiografia del cuore, tra L’affaire Moro di Leonardo Sciascia e L’uovo alla kok di Aldo Buzzi, si staglia Servabo, parola latina che colpì il Pintor bambino, parola che “può voler dire conserverò, terrò in serbo, terrò fede, o anche servirò, sarò utile”. E Mughini, alla maniera di Pintor, ha conservato, ha tenuto in serbo, ha tenuto fede, e serve ed è utile soprattutto a chi non ha mai smesso di essere giovane dentro e a chi è giovane oggi, se solo ha l’ardore di accendersi di emozioni lontane mille miglia da un misero tweet, da un pensiero breve, troppo breve e disarticolato, di emozioni che esplodono sui libri di carta, “sui libri che ci costruivano e decostruivano. Libri di cui ciascuno poteva cambiarti la vita. Oggetti sacri, sì. Oggetti letali a sfogliarne le pagine una dopo l’altra e magari sottolinearle a matita. Ti colpivano al cuore, sì. Stimmate, da cui ciascuno di noi è stato lasciato diverso da ciascun altro”.
E Servabo ebbe e ha questa forza. Di rapirmi, di attrarmi a sé, di modificarmi, di trasformarmi. Non in senso politico, al diavolo i sensi politici, ma in senso vitale, di rinnovato sguardo verso l’anima e il mondo. Un nutrimento amaro ma irrinunciabile se vuoi cogliere l’intima essenza di ciò che ti balla dentro, di quella pasta e di quella sostanza che eri e che sei dopo la lettura, dopo l’incontro, dopo il corpo a corpo.
Scrive Mughini: “Quando nel maggio 1971 mi dimisi dalla redazione del quotidiano il manifesto, al quale tre mesi prima eravamo stati in dodici a dare la vita, la cosa che mi spiaceva più di tutte non era la perdita di un lavoro e di uno stipendio, era il fatto che non avrei più incontrato ogni giorno Luigi in redazione. Più ancora che ascoltarlo, lo guardavo. Di tutti i fuoriclasse di quel gruppo umano e intellettuale, Luigi era il più travolgente”. E di travolgente ha lasciato un libro, perché anche di questo è fatta la vita, di uno che ammiri, di uno che se ne va e ti lascia un libro per sempre, un libro che non scade come può scadere una frequentazione o persino un’amicizia. Resta Servabo a dirci dell’importanza di certi uomini e di certi libri, del profumo che ancora emanano. Di quel profumo non riusciamo a farne a meno, non possiamo farne a meno. Il resto che vale?
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