Esiste ancora lo Stato? Tra Hegel e Spaventa
L'interrogativo è angosciante perché di Stato si può vivere e morire, sullo Stato si può dibattere e argomentare, dallo Stato si può essere liberati e imprigionati. È materia delicata e complessa, lo Stato, per le contraddizioni che sviluppa tra individui che ne attendono protezione e sicurezza e altri che ne subiscono idea e realtà, talvolta, oppressive
Che cosa diciamo oggi quando diciamo Stato? Quale Stato? Esiste ancora lo Stato? C’è una carenza o un eccesso di Stato? È ancora necessario lo Stato? È ancora o si è mai affermato come «sostanza etica consapevole di sé, riunione del principio della famiglia e della società civile» o è un contenitore vuoto di cui si servono singole parti non per comporre interessi ma per perseguirli, non per affermare la sua suprema moralità sociale e il bene comune, ma per preservare il particulare a scapito dell’universale?
Sono interrogativi angoscianti perché di Stato si può vivere e morire, sullo Stato si può dibattere e argomentare, dallo Stato si può essere liberati e imprigionati. È materia delicata e complessa, lo Stato, per le contraddizioni che sviluppa tra individui che ne attendono protezione e sicurezza e altri che ne subiscono idea e realtà, talvolta, oppressive.
Sapete quante discussioni sono state alimentate dalla traduzione e dall’interpretazione della formula hegeliana «Es ist der Gang Gottes in der Welt, dass der Staat ist», secondo cui lo Stato sarebbe la marcia di Dio attraverso il mondo, lasciando intendere che il grande filosofo tedesco volesse propugnare una forma autoritaria, se non dittatoriale, di governo. Eppure Avineri, ricordando la traduzione di Kaufmann, che suonerebbe così: «È il modo di incedere di Dio nel mondo, che lo Stato sia», sostiene che Hegel avrebbe inteso dire «non già che lo Stato è la marcia di Dio sulla terra, o qualcosa di simile, ma che la stessa esistenza dello Stato fa parte di una strategia divina, non è una costruzione arbitraria, meramente umana».
Lo Stato, dunque, non sopprime, ma indirizza. Il particolare verso l’universale, l’interesse dell’individuo verso il bene collettivo. Lo Stato lavora sull’ambizione umana del singolo, non la mortifica, ma la orienta, la guida. Non con il dispotismo, ma con le leggi e nella forma delle leggi. Non sono gli individui a fondare lo Stato, ma lo Stato gli individui, attraverso quella visione o persuasione organicistica per cui lo Stato non si fonda sull’individuo, ma sull’idea di Stato. Lo Stato, dunque, come necessità a priori. Non come necessità utilitaristica, funzionale, ma, appunto, come sostanza consapevole di sé.
Sostanza che non può, ovviamente, che separarsi con nettezza sia dalla teoria liberale dello Stato (pensiamo a Locke e a Kant), sia dall’impianto democratico elaborato da Rousseau. Nel primo caso poiché lo Stato, come precisa Hegel, non dev’essere confuso con la società civile, limitando la sua opera a garantire sicurezza e diritti e annullando, dunque, la propria essenza; nel secondo, poiché la sovranità non può risiedere nel popolo, ma nello Stato medesimo. Fuori dallo Stato, il popolo è soltanto una moltitudine informe. Per la verità, Hegel apprezza che per Rousseau lo Stato si fondi sulla volontà generale ma, come sostiene Avineri, nell’apprezzamento «vi si accompagna una limitazione che concerne quella che, per Hegel, è la limitazione principale di Rousseau, cioè il fatto di non mettere alcuna briglia alla volontà puramente individualistica […]. È alla volontà orientata in senso meramente individualistico che Hegel attribuisce l’errore di fondo espressosi nelle tendenze estremistiche della Rivoluzione francese». Naturalmente, anche l’impianto contrattualistico (ci si associa per contratto tra individui, secondo una logica e una volontà arbitrarie) va rifiutato poiché, per Hegel, rappresenta un insulto «all’assoluta autorità etica e maestà dello Stato».
Ma ha un interesse lo Stato? Qual è l’interesse dello Stato? Qui interviene Bertrando Spaventa che, nei Principi di Etica, scrive: «Lo Stato ha l’interesse dell’universalità». E continua in modo mirabile: «E questo stesso si dice più o meno esplicitamente quando si afferma il fine stesso dello Stato essere la sicurezza comune; questo si deve dire, quando si vede che questa stessa sicurezza comune non è possibile, se lo Stato è soltanto un universale astratto, negativo, senza interesse e vita propria (chi dice interesse, dice sempre qualcosa di positivo), e che in questa astrazione rimane fuori della particolarità propria della società civile. Così l’attività dello Stato è puramente meccanica, è semplice potenza e forza materiale; a questa potenza si sottrae sempre l’arbitrio e la particolarità degli individui; e perciò la comune sicurezza non è raggiunta. In altri termini, perché la sicurezza comune, questo fine del cosiddetto meccanismo dello Stato, sia conseguita, cioè risulti dal meccanismo stesso, questo non può essere puro meccanismo, pura potenza meccanica, ma una potenza essenzialmente etica, cioè tale che abbia una vita propria, positiva, sostanziale. E la ragione è molto semplice, ed è questa: che gl’individui, le forze, le potenze, gl’ingredienti, gl’interessi non sono pura materia e forze meccaniche, ma sono arbitrio, volere, cioè umanità».
La forza della pagina spaventiana risiede nell’attenzione che mostra di avere verso il termine interesse. L’interesse dello Stato. Proprio mentre lo Stato è sottoposto, da sempre, ai colpi impietosi di un altro interesse, quello individuale. Noi stessi siamo abituati a concepire il nostro interesse, a ricercare la soddisfazione del nostro interesse; mai potremmo immaginare un interesse da parte dello Stato. Invece, la (ri)composizione hegeliana trova e acquisisce potenza nell’interesse esplicito dello Stato. Un interesse che non ricerca e privilegia il proprio interesse. Un interesse volto all’universale. Come nella famiglia, dove il tutto viene prima delle parti, anche se la volontà generale delle parti concorre all’organizzazione del tutto. I singoli membri non sono separati dal nucleo vitale della famiglia. L’interesse è l’interesse universale della famiglia, non quello di un singolo componente. Precisa Spaventa: «Questa universalità positiva (immediata, perché gli interessi particolari non sono ancora distinti) è la sostanzialità della famiglia: la sua esistenza etica».
È Giacomo Rinaldi a spiegarci che «la ratio essendi del principio etico è la libertà come autodeterminazione assoluta del volere, che si realizza adeguatamente solo nell’infinita sostanzialità etica dello Stato, e non già nel volere contingente e finito della coscienza morale individuale». Le famiglie, le associazioni o corporazioni, come lo Stato, hanno propria vita, propria sostanzialità, propria eticità. Aggiunge Spaventa: «Nella corporazione l’individuo non vede solo la sicurezza dell’interesse suo particolare, ma un altro interesse, quello della corporazione stessa, vede ciò come la sua sostanza; quindi lo spirito di corpo, la bandiera, etc. La corporazione è come un’universalità relativa, particolare. Quello che questa universalità apparisce agli individui che si uniscono in corporazione, è lo Stato per tutti gli individui; universalità assoluta, assolutamente presa; non astratta, ma positiva; sostanza etica, che si sa e vuole e opera (effettua se stessa), vive e si sviluppa come tale universalità. Lo Stato è così la vera comunità; la comunità, la sostanza, che si sa come un unico individuo, una unica personalità: il vero individuo (soggetto) etico. La famiglia e la società civile hanno la loro verità nello Stato. Dove lo Stato non è altro che famiglia (stato patriarcale), o una istituzione di pubblica sicurezza (polizia), non solo lo Stato non è il vero Stato, ma né la famiglia né la società civile esistono nella loro vera forma».
Lo Stato è unità, è tutto, è sostanza. Sostanza etica. Spaventa, nel tracciare la relazione non dello Stato con l’individuo, ma dello Stato verso l’individuo, focalizza l’attenzione su quest’ultimo, riconoscendone le istanze di chi muove per fare centro su di sé. Compito dello Stato non è di imprigionare l’individuo, di tirarlo a sé, ma di riunire le individualità disperse. Non possiamo immaginare lo Stato separato dall’individuo. In questa separazione risiedono molti degli errori concettuali di chi, separandoli, li mettono in continua contrapposizione, ora inneggiando alla superiorità del primo, ora del secondo. In realtà parliamo di sostanza immanente in tutta l’attività dell’individuo, attraverso la diade che si fa unione: libera personalità e interesse universale, il bene comune. Scrive Spaventa: «Il primo elemento è richiesto dalla coscienza; non vi ha coscienza senza personalità. Il secondo dalla sostanzialità; sostanzialità è universalità. L’unità di questi due elementi è il vero Stato».
Ma l’interpretazione di Spaventa ci aiuta, soprattutto ai giorni nostri, così politicamente mediocri e confusi, a precisare alcune verità consolidate in merito alla costituzione di uno Stato, che per Hegel, sia chiaro, non è la legge superiore a cui subordinarsi, ma l’organizzazione dello Stato e il processo della sua vita organica. Afferma Bobbio: «Nulla vi è di più estraneo al pensiero politico di Hegel del costituzionalismo, cioè dello Stato limitato dal diritto, o più brevemente dello Stato fondato sulla rule of law nel senso anglosassone dell’espressione». A quanti pensano di poter saccheggiare le costituzioni altrui, cioè le organizzazioni e i processi delle vite organiche di altri Stati, mischiandole o integrandole con le proprie, consigliamo vivamente le parole che seguono. Nota Spaventa: «La Costituzione non è una forma astratta, uno schema o luogo comune, nel quale possano adagiarsi tutti gli Stati indifferentemente. La vera e reale costituzione è quella che è propria, intimamente propria, dello Stato; ogni Stato, in quanto è un tutto vivente, ha la sua. Non è qualcosa di estrinseco, di artificiale, che possa adattarsi a piacere a uno Stato, come una veste, una camicia. Essa è la vita stessa, la forma della vita, dello Stato. Se la Costituzione è una camicia, lo Stato nasce, dirò così, incamiciato, o s’incamicia da sé; è stoffa, disegno, sartore, e camicia a se medesimo».
Ma, e qui torno alle angoscianti domande iniziali, lo Stato che siamo chiamati a vivere e pensare, oggi, in Italia e in tanti altri paesi, è sostanza consapevole di sé? O la sua immagine appare deformata, rimpicciolita, piegata da forze che cercano di utilizzare lo Stato, non consentendo allo Stato di fare lo Stato. C’è chi lo guarda con sospetto e diffidenza, lo Stato, quando non con rabbia, quando non come nemico. Ma lo Stato è lì a ricordarci di voler muovere il particolare verso l’universale, a ricordarci di avere un solo interesse: un interesse, appunto, universale.
Non è importante soffermarsi oggi a disquisire sul modello di monarchia costituzionale, e non certo di monarchia parlamentare, delineato da Hegel. Ciò che conta è aprire una riflessione serena ma profonda sull’idea smarrita di Stato, sulla crisi dello Stato, su cosa è lo Stato. Crisi, si badi bene, non di oggi o di ieri. Il costituzionalista Santi Romano, in un celebre scritto, si occupa della crisi stessa facendola risalire al periodo che precede il primo conflitto mondiale. Ma c’è anche chi ha parlato di “trionfo dello Stato”, dopo la seconda guerra mondiale. Oggi si parla di Stati che cedono sovranità a Stati definiti, appunto, sovranazionali.
È la sfida della globalizzazione. Per Gianfranco Poggi, «alla fine del XX secolo lo Stato si trova esposto a numerosi fenomeni che minacciano di esautorarlo, disarticolarlo, privarlo di risorse, e gli impongono di invertire o quanto meno arrestare la tendenza secolare alla crescita organizzativa e all’ampliamento dei suoi compiti». È il declino dello Stato-nazione che, a cavallo tra il XX e il XXI secolo, sembra aver abbandonato le sue caratteristiche essenziali, che lo resero protagonista assoluto della scena politica, interna ed estera, dal periodo dell’età moderna in avanti. Siamo in presenza di uno Stato a rete, che può mantenersi stabile previa accettazione della perdita di sovranità di ogni nodo della stessa. L’unica governance possibile è cosmopolita, risultato della stessa cultura cosmopolita che interessa tutte le società civili del mondo. Il pericolo è corso dalla democrazia, mancando il principio di condivisione politica. Lo Stato, incapace di controllare i flussi di capitali e di garantire la sicurezza sociale, perde legittimità agli occhi dei cittadini.
È fuorviante dibattere di una carenza o di un eccesso di Stato. Lo Stato è o dovrebbe essere e basta. Tuttavia, deve fare i conti con la volontà degli uomini. E gli uomini quasi mai hanno attitudine ad accettare che il particolare muova verso l’universale, che i propri particolari vengano universalizzati. Da un “vero Stato”. Ma, come ricorda Rinaldi, anche un “vero Stato” è «in verità destinato a rimanere un’astrazione (relativamente) inattuale, fintantoché esso non consegua un’adeguata autocoscienza della propria essenza nel sapere filosofico, che è da ritenersi dunque – com’è stato il caso di una millenaria tradizione spirituale, che può annoverare tra i suoi maggiori rappresentanti i nomi illustri di un Socrate, Platone, Aristotele, Spinoza e Hegel – la più originaria condizione di possibilità della concreta attuazione del summum bonum, cioè del principio etico, nell’immanenza storica del volere umano».
In un contesto che pure appare radicalmente mutato, la lezione dei grandi maestri del pensiero filosofico resta tale. Ai loro insegnamenti continuiamo ad attingere, a chiedere luce, consapevoli che non smetteranno mai di illuminare la nostra ricerca quotidiana.
Il Foglio sportivo - in corpore sano