Pier Paolo Portinaro, le mani su Machiavelli
Il filosofo politico torinese sferra un durissimo attacco all’Italian Theory. Il libro apre alla possibilità dell’incontro-scontro in grado di generare profonde riflessioni e nuovi approdi
L’immagine degli Schermidori in copertina, opera del 1929 di Pippo Rizzo, pittore e scultore siciliano, dice più di tutto su una singolar tenzone, una sfida a duello che Pier Paolo Portinaro, filosofo politico dell’Università di Torino, lancia all’Italian Theory. Edito da Donzelli, Le mani su Machiavelli. Una critica dell’«Italian Theory», è un affondo che punta dritto al cuore, non mira a salvare l’avversario, pur riconoscendogli qualità speculative. In un contesto annoiato e stanco, in un ambito filosofico, quello italiano, dove i colpi sotto la cintola si tirano dietro le quinte delle cattedre universitarie o in ristretti cenacoli, comunque lontano dalla luce dei riflettori, ben venga un libro che, condivisibile o no, ha il merito di gettare il sasso senza nascondere la mano, anzi porgendo il petto in fuori senza alcun timore di ferire. Al momento, per la verità, l’avversario, investito da una gragnuola di colpi, da una carica velenosa e virulenta, tace, ma il dibattito è aperto e l’altra parte, chiamata all’incrocio delle spade, non può tirarsi indietro. La sfida va raccolta.
Portinaro, sia chiaro, mette anch’egli le mani su Machiavelli con l’intento, dichiarato, di liberarlo dalle mani degl’ItaloTeoreti. E non si ferma a Machiavelli. Identica operazione effettua con Gramsci in un capitolo dove campeggia il punto interrogativo: Gramsci elitista rivoluzionario? I punti interrogativi, a dimostrazione che l’autore dubita retoricamente, riguardano anche altri tre capitoli: Quale realismo politico?; Machiavelli cattivo maestro? E Una filosofia per l’Europa? A uscirne bistrattato è soprattutto l’impianto teorico di Roberto Esposito, “si fatica a seguirlo nella costruzione di differenze e discontinuità che nel procedere del suo percorso suonano, alla modesta intelligenza dello scrivente, sempre più artificiose”, di Antonio Negri, senza trascurare i cugini francesi Michel Foucault e Jacques Derrida.
Scrive Portinaro: “Il successo internazionale della cosiddetta Italian Theory è un fenomeno interessante, che andrebbe indagato con le categorie della veneranda Wissenssoziologie. A valle di una multisecolare, ma anche estremamente composita tradizione nazionale operano infatti qui due contrastanti ma complementari fenomeni: da un lato l’astuta pubblicizzazione di un marchio, tutta interna a una logica di globalizzazione capitalistica che ha ormai preso possesso anche della cultura ‘alta’ (e di cui profittano anche i più astiosi critici del capitalismo finanziario o delle dinamiche neoimperiali), dall’altro la costruzione di nuclei propagatori di un pensiero che si vuole radicalmente critico (‘antagonista’) nei confronti dell’esistente e che, pur maturato nel guscio protettivo delle università, ostenta con compiacimento un gesto antiaccademico. Di fatto, assai meno déracinées dei rivoluzionari ottocenteschi che fuori dei patrî confini predicavano il primato morale e civile italico, i protagonisti di questo orientamento tendono ad arroccarsi in quelle oasi dell’arcipelago accademico dove un po’ pateticamente si coltiva (senza rischi) il diritto all’alterità della sinistra antagonista”. Poi, il botto: “L’Italian Theory è una mimetica trasposizione a livello cultural-elitario di questo genere di attività di autopromozione (che non frutta grandi introiti, ma almeno grants e posizioni accademiche)”. Il riferimento è addirittura alla fondazione di un’associazione culturale, “Italiani nel mondo”, che nel 2001, con il giornalista napoletano Sergio De Gregorio, intendeva promuovere il marchio e l’immagine del Made in Italy. Aggiunge Portinaro: “Bisognerebbe avere più pudore, quando si esalta il pensiero di un paese che cent’anni fa ha regalato all’Europa il fascismo e oggi si appresta a sconvolgerla, forse, con nuove sperimentazioni demagogiche”.
Esposito, scrivendo Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana (Einaudi, 2010), non pensava certo di dover fronteggiare tali accuse, ma Portinaro gli rimprovera un passo ardito, eccessivo, improponibile, un triplo salto mortale, “non privo di ambiguità, che riassumerebbe un presunto tratto comune della filosofia italiana, racchiudendo in un unico orizzonte Machiavelli e Gramsci fino all’operaismo e alla biopolitica”. Proprio alla biopolitica, Portinaro addebita la responsabilità di aver spalancato la strada all’avvento dell’antipolitica, tutto il contrario della lezione impartita da Machiavelli: “Come molti dei loro seguaci, i teorici della biopolitica positiva non arrivano mai a pensare che la creatività e il vitalismo della moltitudine possano essere anch’esse responsabili di un processo di saturazione ecosociale destinato semplicemente a moltiplicare le favelas del mondo”. Invece, per Portinaro, è altro il pensiero da accostare a Machiavelli, è quell’Italian Style, “quello dei maestri del disincanto democratico: Salvemini, Bobbio, Miglio, Sartori, Pizzorno”.
Italian Style, dunque, contro Italian Theory. Anche sulla nostra tribolata Europa. Chiude Portinaro: “L’ItaloTeoreta non è europeista, ma cosmopolita. L’Europa gli appare piuttosto un groviglio di malconcertate resistenze all’avanzare del processo, oggettivamente rivoluzionario e liberatore di energie, della globalizzazione. Purtroppo questa posizione ha incontrato sempre più largo consenso nell’opinione pubblica europea. I popoli e, in parte, anche le élites del Vecchio continente non hanno saputo e voluto comprendere che è ancor sempre alla grammatica della statualità che è debitore l’avanzamento e il consolidamento del progetto repubblicano e sociale europeo. A furia di lavorare alla decostruzione della politica moderna – frantumandone i concetti, a cominciare da quello di Stato – si finisce per disporre soltanto più di una materia amorfa, che la si chiami moltitudine, proletariato sociale o biopotere. Smontata – e, dobbiamo riconoscerlo, quest’opera di smantellamento è ormai molto avanzata – la ‘macchina teologico-politica che imprigiona le nostre vite’, residuerà soltanto il conflitto autodistruttivo dei gruppi corporati e dei populismi nazionali”.
Tagliare a pezzi un fanciullo, gettare in aria tutti i suoi pezzi per farlo ricadere vivo e ricomposto, è la pratica dei 'ciarlatani giapponesi' riferita da Rousseau nel Contratto sociale. Machiavelli, per Portinaro, “insegna che certi esperimenti non possono riuscire”. A riuscire è certamente il suo libro, perché apre alla possibilità dell’incontro-scontro, alla possibilità di una voce opposta, contrapposta, in grado di generare profonde riflessioni e nuovi approdi. Di ciò vive, si nutre e nutre la filosofia, per chi a essa vuole rivolgersi nel tempo pigro, nel tempo delle passioni tristi.
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