Mario Trevi, maestro del dialogo
La misura, la fine cifra stilistica del pensiero, l’umiltà e la tolleranza, l’incedere lento ma acuto della riflessione, il tratto intuitivo: un ricordo del celebre psicoanalista a sette anni dalla scomparsa
A chi mi ha chiesto di immaginare il volto di uno psicoanalista, ho risposto senza esitare: “Mario Trevi”. Sono venticinque anni dall’uscita di Saggi di critica neojunghiana (edito da Feltrinelli), sette dalla scomparsa di una figura dalla presenza minimale sulla scena teatrale e appariscente della psicoanalisi, massimale sui contenuti teorici di una disciplina che vive cadute e rinascite, picchi vertiginosi e colossali strapiombi. In analisi con Ernst Bernhard, “andai a trovarlo. Abitava in una casa meravigliosa dalle parti di San Luigi dei Francesi. E fin dal primo momento sentii in lui una personalità paterna. Stetti in analisi per tre anni. Poi, grazie anche al consiglio di un’amica, gli chiesi se accettava di prendermi per un’analisi didattica e fu così che intrapresi la professione di psicoanalista», Trevi non si è mai aggrappato alle teorie, ritenendole sempre provvisorie e contestabili. Ha scritto Luciana Sica (siamo privi anche di lei, che su “Repubblica” portava amabilmente anima e psiche): “Di controtendenza è stato lo junghismo che Trevi ha riproposto in una chiave brillante, innovativa, nel segno dell'originalità. Del resto, lui amava il maestro svizzero più empirico, critico, ermeneutico, probabilista, il teorico di quel "principio di individuazione" che tende a differenziare il singolo dagli stereotipi collettivi, a permettergli di adeguarsi ai valori culturali con un'impronta personale. Ha invece detestato lo stregone misticheggiante, il profeta oscuro che ha creduto di scoprire il fondo dell'anima. Trevi era tutt'altro che rapito dall'enfasi per l'inconscio collettivo o per gli archetipi, quelle enigmatiche immagini originarie espresse principalmente nei miti e nelle fiabe. Tanto meno lo incantavano certe forme di religiosità neopagana costruite intorno al concetto del ‘Sé’, un'entità a cui assegnava lo stesso peso metafisico dell'anima platonico-cristiana. A questa corrente neojunghiana deteriore, disinvolta e accattivante nel suo confuso misticismo, Trevi è stato del tutto estraneo anzi allergico. Per averne un'idea, basta scorrere i titoli dei suoi libri più importanti”.
E Saggi di critica neojunghiana è tra questi, poiché mira a mettere in discussione, a non smussare gli angoli dialettici, bensì a evidenziarli, ad abbassare le vette degli assoluti, a segnalare persino l’equivoco di Jung come modello, di chi, più realista del re, finisce per mostrarsi più junghiano di Jung. Ci pensano Trevi e lo stesso Jung a mettere le cose a posto. Scrive lo psicoanalista italiano: “La prima opera con caratteri e portata veramente universali di Jung è Tipi psicologici, la quale non è tanto una descrittiva delle diverse modalità di espressione delle varie strutture psichiche umane quanto piuttosto l’affermazione dell’ineludibile diversità dei ‘tipi’ con cui ci si dà l’esperienza della psiche. Al termine di quell’opera infatti si relativizza la stessa relatività dei tipi descritti, denunciando chiaramente l’appartenenza a un determinato e tuttavia indefinibile ‘tipo’ di ogni costruttore di tipologie. Ma, se è vero il principio tipologico per cui ogni psicologia è pronunciata dall’angolo visuale di un ‘tipo’, Jung ha omesso di denunciare il suo ‘tipo’, appunto il suo ‘angolo di visuale, quel sichtspunkt che egli stesso invoca con tanta forza e persuasione come limite, sì, ma anche come legittimazione di una psicologia”. È lo stesso Trevi, del resto, a riportare il passo di una risposta di Jung alla lettera di un giovane che lo assillava con la 'singolarità' della psicologia junghiana: “Mi rendo conto del fatto che io posso dare soltanto una risposta, cioè la mia, che certamente non è valida universalmente, ma può essere sufficiente per un numero ristretto di individui contemporanei”.
In Maestri a confronto, edito da Moretti&Vitali, curato da Vito Marino De Marinis, Gianni Nagliero e Ferruccio Vigna, c’è un ritratto di Trevi firmato da Paulo Barone, che scrive: “Chiunque abbia avuto sott’occhio anche solo uno dei non molti scritti di Trevi, non potrà non riconoscere che la sua ricerca nel campo delle vicissitudini psichiche è stata segnata da un numero determinato e ricorrente di parole chiave, quali libertà, progettualità, possibilità, dialogo”. Per comprenderlo appieno basta rileggersi Dialogo sull’arte del dialogo. Psicoanalisi e psicoterapia, con Alessandro Fedrigo. Basta riaprire Simbolo, metafora, esistenza. Saggi in onore di Mario Trevi, sempre per i tipi di Moretti&Vitali, dove dalla prefazione di Bruno Callieri, altro maestro rimpianto, alle Considerazioni sul pensiero di Mario Trevi, di Paolo Francesco Pieri, dal saggio del suo caro amico Umberto Galimberti, Il simbolo: orma del sacro, a La rimozione del simbolo di Marco Innamorati, passa un esergo posto a capo del saggio di Luigi Aversa su Le figure etiche dell’esperienza analitica: identità, alienità, alterità. L’esergo, tratto da Interpretatio duplex, è firmato Mario Trevi: “La sincerità senza limiti che viene richiesta come condizione maggiore e indispensabile al paziente non sarebbe che morbosa passività o compiaciuto e pigro arrendersi alla più facile delle modalità di colloquio se non fosse capace di convergere e di aderire concentricamente – sia pure provvisoriamente – verso quegli spazi di riferimento che il dialogo via via offre come contributo del discorso sulla psiche”. Basta, infine, rileggere e abbandonarsi al Dialogo finale di Aversa con Trevi per cogliere la misura di quest’uomo, la fine cifra stilistica del pensiero, l’umiltà, la pazienza e la tolleranza, il tratto intuitivo, l’incedere lento ma acuto della riflessione: “Assistiamo a un’inaspettata ricchezza e diversificazione dell’immaginario umano. Basti pensare all’indubbia reviviscenza – sia pure in parte ambigua – dello spirito religioso e alla profondità della ricerca teologica che, a mio parere, non è mai stata così intensa almeno dai tempi della Riforma. Gli apocalittici della tecnica diranno: il brutto deve ancora venire. Va bene. In questo caso mi sento di rispondere: prepariamoci alla desertificazione e scaviamo molti pozzi artesiani”.
Al figlio Emanuele, allo scrittore noto a voi tutti, in un altro dialogo, Invasioni controllate, edito da Castelvecchi, che gli chiede se sente di aver raggiunto una certa saggezza, Trevi risponde: “Non penso di essere diventato né un saggio né un santo. Non è che ho una grande stima di me stesso”. Chapeau! Così parla un Maestro. Così è un Maestro. Senza farlo.
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