David Le Breton, il silenzio è d'oro
È un piacere perdersi nel silenzio che ci chiama, nel sesso del silenzio, nell’ambiguità del silenzio, nella ricerca del silenzio, nel silenzio del dolore, nella fine del silenzio
Raffaello Cortina, erede di una famiglia di librai, in un’intervista di qualche anno fa ha dichiarato: “Un buon libro è innanzitutto un libro che rimane. Ci sono libri che lasciano il segno”. I libri di David Le Breton, antropologo e sociologo francese, rimangono e lasciano il segno, oltre ad avere un indiscutibile merito: abbassano le tante luci fasulle che abbagliano la terra e gli umani, spengono i molteplici rumori che disturbano la quiete mentale, riconducono l’essere alla dimensione interiore. Dall’esterno all’interno in un movimento d’insieme, non solipsistico, ma salutare. Aveva dato già prova di sé con Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi;Esperienza del dolore. Fra distruzione e rinascita; Fuggire da sé. Una tentazione contemporanea; tutti editi da Raffaello Cortina. Ora torna a noi con Sul silenzio. Fuggire dal rumore del mondo, testo aggiornato rispetto all’edizione originale parigina del 1997, sempre per i tipi dello stesso editore nella Collana “Scienza e Idee”, mirabilmente diretta da Giulio Giorello.
Scrivendo sul silenzio, Le Breton ha sognato invano “di cucire le frasi su una stoffa di silenzio. […] Se la parola non è libera, sicuramente non lo è nemmeno il silenzio. La gioia del mondo discende dalla possibilità di scegliere sempre. Ma il silenzio ha sempre l’ultima parola”. Non è un gioco di parole. Non c’è parola senza silenzio. E prima di pronunciarla, dice Merleau-Ponty, occorre “considerare lo sfondo di silenzio che continuamente la circonda, senza il quale essa non direbbe niente, o anche mettere a nudo i fili di silenzio di cui è inframmezzata”. Penso alla parola e al silenzio della seduta analitica, penso al taglio della parola che lascia spazio a interminabili silenzi. Penso al non detto dopo tanto dire. Al taciuto. Scrive Le Breton: “Se la possibilità del linguaggio caratterizza la condizione umana e fonda il legame sociale, il silenzio, da parte sua, preesiste e perdura nell’intrecciarsi delle conversazioni che ineluttabilmente sperimentano, nel loro originarsi e nel giungere a termine, la necessità di fare silenzio. La parola è un filo sottilissimo che vibra sopra l’immensità del silenzio”. E ancora: “Il silenzio interroga i limiti di ogni parola, ricordando che il senso è contenuto entro confini angusti, rispetto a un mondo di illimitata vastità, ed è sempre in ritardo sulla complessità delle cose. Malgrado l’impazienza di comprendere, il desiderio di non trascurare nulla, alla fine l’uomo si ritrova sempre a doversi confrontare con il silenzio”.
Silenzio e parola, parola e silenzio. “Silenzio” è una parola. In Il presente e le parole. Spunti di riflessione dalla A alla Z, appena edito da Franco Angeli, libro a più voci e a più mani curato con maestria da Eide Spedicato Iengo, “silenzio” è parola che manca. Non sono state trovate le parole per descrivere l’immensità del silenzio. Le Breton le ha trovate, dando forma a un itinerario suggestivo dal vagito del neonato al silenzio della morte, non è mai innocente la parola: “La parola è al centro dello scambio verbale: si gusta l’eloquenza, la disinvoltura verbale di chi sa calare la propria lingua nelle regole, ricordando la saggezza del gruppo, l’esperienza e le tradizioni condivise. È un piacere ascoltare un narratore. Ma il valore della parola raggiunge il suo livello più alto quando è contenuta dal silenzio che l’accompagna. Il saper dire implica un saper tacere, una conoscenza profonda del potere di una lingua di cui conviene fare il miglior uso possibile per la comunità”.
È un piacere leggere Le Breton, perdersi nel silenzio che ci chiama, nel sesso del silenzio, nell’ambiguità del silenzio, nella ricerca del silenzio, nella rottura del silenzio, nel silenzio del dolore, nella fine del silenzio. Declinazioni, intuizioni, paesaggi inesplorati, vicende umane di spiritualità, di contenimento, di estensione. Di ascolto: “Il ricorso al silenzio rende il terapeuta più disponibile all’ascolto della parole di un paziente seguendo i meandri del suo percorso nei territori dell’inconscio. La messa in rilievo delle virtù del silenzio in un percorso terapeutico nasce da una richiesta di Emmy von N. in un’epoca in cui Freud ricorreva ancora al metodo catartico. Quando Emmy inizia a parlargli delle sue gastralgie, Freud le offre subito un’interpretazione sulla loro origine. Ma la giovane donna non se la lascia raccontare, intimando al proprio terapeuta di tacere e di ascoltarla”. E Freud tace e ascolta. Nelle pagine dedicate a psicoanalisi e silenzio, il sociologo francese aggiunge: “Il silenzio dell’analista non è mutismo né un vuoto, un’assenza di parola o di senso, perché la sua presenza non è meno gravida di quei significati che il paziente gli attribuisce. Non si tratta di essere assente, bensì piuttosto di rendere testimonianza di quello che può essere un silenzio attivo, gravido di una tensione che mantiene il paziente vigile. L’analista potrebbe parlare, ma sceglie di astenersi per privilegiare l’ascolto e perché la sua parola risuoni con più forza quando decide di intervenire”.
Oggi la chiacchiera impera, eppure “in un contesto in cui il rumore non molla mai la presa sull’umanità contemporanea, in cui le parole si svuotano di significato, si acuiscono la nostalgia del silenzio e l’aspirazione a ritrovarlo. Sono sempre più numerose le persone che privilegiano i soggiorni di meditazione o i ritiri nei monasteri”. Anche il libro di Le Breton è un soggiorno di meditazione, un ritiro in un monastero, il monastero della lettura, dello scambio culturale, dell’immersione nella parola scritta mentre l’altra, parlata, tace. Nella ricca bibliografia che chiude l’opera, trovo tanti autori e tante pagine che, nel corso del tempo, hanno accompagnato le mie parole, le mie scritture, i miei silenzi. Ci sono Agostino e Bauman, Canetti e Derrida, Freud e Giovanni della Croce, kafka e Lacan, Merton e Neher, Orwell e Pessoa, Rilke e San Bernardo, Teresa d’Avila e Van Gennep, Wiesel e Zonabend. Non c’è Leopardi, ma vi sono sovrumani silenzi e profondissima quiete. Un libro splendido. Che rimane. Che lascia il segno.
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