Doppio Cioran, mistero insondabile
I due libri, di Vincenzo Fiore e Gabriel Liiceanu, dedicati al filosofo romeno, rispettano la sua altezza senza smarrirsi al cospetto della vetta. Dall’attacco a Freud all’idea del suicidio, dalla noia alla inservibilità della vita, resta ancora aperta la sua domanda, non ancora raccolto il suo urlo
Ancora Cioran, doppio Cioran, sempre Cioran, per continuare un’indagine mai finita, e destinata a non finire, su un pensatore che ha sradicato alla radice l’essere uomo, urlando la sua inutilità, il suo essere inservibile, strappandogli tutte le maschere, spogliandolo di tutte le illusioni, di tutte le ridicole armature. Due libri, uno di Vincenzo Fiore, l’altro di Gabriel Liiceanu. Due libri vicini e distinti, due libri che rispettano l’altezza, senza smarrirsi al cospetto della vetta. Dalla vetta, non dimentichiamolo, si può precipitare. Vincenzo Fiore si è chinato con intelligenza sulla sua opera e ne ha ricavato un libro denso, dove le note accompagnano e talvolta superano, per importanza, il testo. Emil Cioran. La filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia, edito da Nulla Die, ripercorre gli anni della giovinezza, della formazione, della scoperta della disperazione. Cioran sembra viaggiare, dalla nascita, con la morte cucita addosso. Sembra segnato, marchiato, creato per non durare, per non farcela, per crollare al primo angolo dietro casa. In realtà si nutre di vita e di malattia, parla francese meglio dei francesi, aborre ogni ideologia, scrive righe che bucano la pagina, mentre la faccia buca l’aria, la fredda aria del Jardin du Luxembourg dove vaga, di notte e di giorno, con una fedele compagna accanto: l’idea del suicidio, che non è una pazza e tragica idea, mentre la tragedia del “meglio non essere nati” gli si stringe alla gola. Cioran si impone la vita, si obbliga a vivere, disperatamente vive, pensa, scrive, ma si lascia vivere, si abbandona alla vita per non abbandonare la vita: “La vita è sopportabile solo grazie al sonno”. Egli, infatti, dorme poco e male.
Il libro di Fiore contiene anche una brevissima lettera inedita del filosofo e un articolo di rilievo della giornalista Carol Prunhuber, ma colgo, verso la conclusione, il tema su cui l’autore dà il meglio di sé, le pagine che riguardano la cura, la psiche, la “necessità di ‘crearsi’ autonomamente una terapia deriva dal fatto di non ritenere valide le cure ‘ufficiali’. Il rifiuto della psicoanalisi da parte di Cioran non è una presa di posizione dogmatica, ma il risultato di studi condotti sulla materia e, in particolare, dall’esame dell’opera freudiana. Più si legge Freud, scrive il filosofo romeno, più ci si convince di avere a che fare con il fondatore di una nuova setta, un proclamatore di nuovi articoli di fede, un profeta intollerante mascherato da uomo di scienza”. Fiore si affida ai Quaderni e riporta testualmente: «“Un disturbo di memoria sull’Acropoli” di Freud. È incredibile fino a che punto tutto ciò che ha concepito quest’uomo sia assimilabile al vaneggiamento. Al vaneggiamento abile. Una facilità di ipotesi spinta fino al delirio. Ci si lancia in qualsiasi spiegazione; più è inverosimile, più seduce. È l’arbitrario, l’avventura mascherata da scienza. La voga della psicoanalisi ricorda quella del mesmerismo, della fisiognomica (Lavater), del magnetismo animale, ecc. Abbiamo bisogno di spiegare tutto da un punto di vista estremamente limitato, di erigere a principio universale una trovata o una fissazione. La mania filosofica è deleteria per la Verità».
Cioran non accetta la psicoanalisi e Fiore dà conto, attraverso passi significativi tratti da Al culmine della disperazione, Un apolide metafisico e Sillogismi dell’amarezza, delle dure accuse, delle frasi sferzanti rivolte contro la psicoanalisi: “Dato che nella psicoanalisi la parola è obbligatoria, diventa tortura. Il che è molto pericoloso. La psicoanalisi finisce con il portare le persone al totale squilibrio”. Cioran, che nei suoi libri straordinariamente intensi analizza l’uomo, lo seziona, lo smonta senza mai rimontarlo, lo rende oggetto di uno studio infinito, rifiuta la psicoanalisi. Si è inabissato nei fondali infernali senza appoggiarsi al braccio di alcuno, senza confidare in uno specchio, l’analista, che gli avrebbe restituito soltanto sé stesso. Non lo avrebbe sopportato: “Giù lo specchio! Esso, non avendo sfondi o limiti, rivela ciò che è più intimo e distante in noi; i nostri temibili segreti, le nostre demenze nascoste”. C’era già un Cioran da sopportare ed egli ha impiegato tutte le energie possibili per sopportarlo.
Lo si comprende meravigliosamente prima sfogliando, per apprezzarne le foto, poi leggendo l’altro libro: Emil Cioran. Itinerari di una vita, edito da Mimesis, con la preziosa cura di Antonio Di Gennaro. È il libro dove Gabriel Liiceanu propone l’ultima intervista filmata al suo connazionale, datata 18-20 giugno 1990. Mi ci sono fiondato prima di leggere il resto, perché nella conversazione emergono gli abissi, le viscere, la (quasi) verità. Il terrazzo della mansarda in rue de l’Odéon, dove più volte ho sostato in sogno mentre leggevo i libri di Cioran, mentre morivo sui libri di Cioran, ha i fiori che guardano Parigi. Scrive Liiceanu: “Nei libri di Cioran la parola ‘morte’ ricorre molto spesso. Viene spontaneo chiedersi allora: come potrebbe essere la fine di un uomo che, per tutta la sua vita, ha parlato sempre della morte?”. Come quella di Canetti, mi verrebbe da rispondere. Continua Liiceanu: “Il tema della morte è fortemente radicato nell’opera di Cioran: voler comprendere la sua fine, significa interrogarsi sul compimento della propria opera, anziché rispondere a una semplice domanda di carattere biografico. Colui che si era arrogato il monopolio della lucidità, probabilmente doveva terminare la propria esistenza all’altezza di un simile eccesso, di un tale orgoglio. Se aver insistito tutta la vita sul più insolubile dei problemi – la morte – non poteva sicuramente sottrarre il corpo al suo destino, un tale sforzo non poteva forse dirigerne la fine? Cioran non si è guadagnato il diritto di una morte solo sua, senza eguali? Ma se così fosse, allora, come sarebbe dovuto morire?”.
Cioran era ipocondriaco. Scriveva al fratello e si soffermava su malattie e prescrizioni mediche, da giovane sognava di avere la sifilide. Aggiunge Liiceanu: “Di notte non riusciva a dormire a causa degli inseparabili formicolii alle gambe, si svegliava verso ora di pranzo, mangiava e poi si metteva a scrivere. Di cosa? Della creazione del mondo come primo atto di sabotaggio, del rimpianto verso il Nulla trasformatosi in Essere, della mostruosità dell’uomo. Dell’insonnia, dell’assurdo, della malattia e della morte. Di Dio, responsabile di tutto ciò. Dell’infanzia paradisiaca, dell’innocenza, della felicità di essere un pastore a Rǎşinari e della sfortuna di essere uno scrittore a Parigi. Del rimpianto di non poter attraversare i regni in senso inverso, per ritrovare la felicità dell’animale, della pianta e della pietra. Della coscienza come piaga incisa nel corpo dell’universo”. Per Cioran, infatti, “la coscienza è molto più della scheggia, è il pugnale nella carne”.
Liiceanu tocca il tasto della noia e Cioran risponde: “La noia è stata l’esperienza più familiare, il mio lato morboso. Parlerei di un’esperienza quasi romantica della noia, che mi ha accompagnato per tutta la vita. Ho viaggiato molto e ho visitato tutta l’Europa…dovunque mi trovavo ero colto da un immenso entusiasmo; ma il giorno successivo, la noia. Quando arrivavo in un luogo nuovo, pensavo che era il posto dove avrei voluto vivere. E il giorno dopo…questo male veniva a perseguitarmi”. Liiceanu tocca il tasto del suicidio e Cioran risponde: “Non ho mai detto che bisogna suicidarsi; ho soltanto affermato che l’idea del suicidio può aiutarci a sopportare la vita. La possibilità di togliersi la vita, di potersi suicidare quando lo si vuole, può rappresentare un gran sollievo. Quest’idea mi è stata di grande aiuto e ho fatto lo stesso ragionamento a chiunque mi confidasse di voler farla finita. Perché a Parigi, come forse sa, la tentazione del suicidio è un fenomeno piuttosto frequente. Ricordo che alcuni anni fa è venuto a trovarmi un ingegnere, una persona relativamente giovane. Aveva letto le mie riflessioni sul suicidio e voleva uccidersi. Abbiamo passeggiato per tre ore nel Jardin du Luxembourg. Gli ho spiegato che il suicidio – l’idea del suicidio – è un’idea positiva, perché rende la vita sopportabile”. Cioran incontra l’ingegnere tre anni dopo. Ancora vivo. “Ho seguito il suo consiglio e, vede, sono ancora vivo”. Risponde Cioran: “Perfetto, continua!”.
Ultima domanda di Liiceanu, da romeno a romeno: “Vorrebbe rivedere Rǎşinari? Ci tornerà?”. Risponde Cioran: “Non lo so, non posso rispondere. Temo di rivedere i luoghi che hanno contato molto nella mia vita. Ero troppo felice in quel villaggio. Ho paura di ritrovare il paradiso”. Fine. Non resta che stringersi a Simone Boué, la compagna incontrata negli anni ’40, l’amore: “L’amore ha rappresentato senza dubbio un’esperienza fondamentale. E con mia grande meraviglia, l’ho vissuta. Ma non ha risolto alcun problema”. Perché non era e non è risolvibile il problema Cioran, perché non era e non è risolvibile il problema uomo. Da una lunga e penosa sopportazione sono nati i suoi libri e quelli degli altri su di lui, Fiore e Liiceanu compresi, che cominciano a diventare numerosi senza poter esaudire fino in fondo la domanda di Cioran, senza poter raccogliere fino in fondo l’urlo di Cioran. Non è colpa di Fiore e Liiceanu. È colpa, o forse merito, di Cioran. Tanto è stato detto e scritto, tanto resta ancora da dire e da scrivere. Miniera inesauribile, cantiere perennemente aperto, fenomeno indagabile fino alla soglia della mansarda di rue de l’Odéon. Oltre non si può. Perché anch'egli, come ognuno di noi, era un uomo. Mistero sondabile fino alle porte dell’anima. Anche la psicoanalisi, quella che non si ritiene onnipotente, lo sa.
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