Rossella Valdrè, la morte dentro la vita
Inestricabilmente intrecciate, ma non sempre riconosciute tali, la psicoanalisi può fare e dare molto all’umano distratto, all’umano che non accetta l’espressione di Pontalis: la morte, dentro la vita, è “al lavoro”
Mi ero perso, per colpa grave, un libro importante. Segnalatomi dall’amica Simonetta Putti, analista junghiana, recupero prontamente. Sì, perché Rossella Valdrè, psichiatra e psicoanalista, con La morte dentro la vita. Riflessioni psicoanalitiche sulla pulsione muta. La pulsione di morte nella teoria, nella clinica e nell’arte, edito da Rosenberg&Sellier nel 2016, indugia con padronanza professionale, per oltre duecento pagine, su un tema decisivo, il tema centrale del mio L’inestricabile intreccio. Vita&Morte: passaggi, edito da Morlacchi nel 2012. Per dire la soddisfazione di ritrovare lo stesso tema trattato con fonti diverse, da angolature diverse, ma seguendo un istinto (mi verrebbe da scrivere una pulsione) comune.
Anticipa bene Laura Ambrosiano nella prefazione: “A partire dal suicidio cellulare (l’apoptosi descritta dall’immunologo Jean Claude Ameisen nel 1999), ricorda Valdrè, fino alle più sorprendenti creazioni artistiche, la morte si mescola con la vita. Scrive Rossella: senza pulsione epistemofilica, di vita, non esisterebbe alcuna creazione artistica; ma senza pulsione di morte non ci sarebbero quelle indagini del dolore umano, senza veli sugli occhi, che i grandi artisti sono in grado di compiere. E questo, io sottolineo, non vale solo per gli artisti e gli uomini di genio, ma è l’intreccio che sostiene la capacità di amare e di lavorare, la possibilità di individuarsi e soggettivarsi di ciascuno di noi. La morte non è una eccezione, non è una eventualità, è la linea che segna il limite dell’orizzonte individuale. La morte come evento concreto, e la sua presenza dentro di noi come pulsione, inquietano, fino alla posizione di tante persone che incontriamo nei nostri studi che affermano: ma perché crescere, svilupparsi, fare tanta fatica, se poi si muore?”.
Un perché gigantesco, ma soltanto per chi continua a considerare la vita distinta, anzi nettamente separata e opposta alla morte. Premette Valdrè: “Ciò che in questo libro mi preme particolarmente sottolineare è la complessità infinita, e lungi dall’essere risolta, dell’intreccio pulsionale: si è abituati a pensare la vita e la morte come antitetiche, l’una opposta all’altra, ma quella che una lettura più approfondita di Freud ci apre è un panorama ben più complesso e inquietante. Morte e vita sono legate (e, vedremo, anche all’interno del nostro corpo), l’una non è il semplice opposto dell’altra, ma il loro intreccio, qualcosa di più misterioso e specifico del tradizionale impasto che vede le due pulsioni sempre legate per sostenere la vita, il loro intreccio appare più interdipendente”. Dentro la vita, ha scritto Jean-Bertrand Pontalis, la morte è “al lavoro”.
Sia chiaro: chi scrive e parla di morte dentro la vita non tifa per la morte, non la chiama, non la auspica, ne farebbe volentieri a meno, ma “ogni fantasma cacciato dalla porta, si sa, tornerà a reclamare il suo diritto dalla finestra. Vorrei anche sottolineare come credo non vi sia, nel discorso freudiano come nella mia rilettura, alcuna apologia della sofferenza, alcun inno alla morte: il Freud clinico ha osservato certi fenomeni, lo hanno colto di sorpresa, gli parvero paradossali al principio del piacere fino ad allora pilastro della sua teoria e gli scompigliarono le carte con cui dovette fare i conti da lì in poi: il piacere non ha alcun primato sulla vita psichica. Il piacere non avviene che in assenza di dispiacere. Siamo portatori di un resto, di un eccesso; non va mai dimenticato”.
E la psicoanalisi, se non dimentica l’espressione di Jacques Derrida (la vie la mort), tanto può fare e dare a un umano distratto, che non sopporta il dolore perché lo ritiene fenomeno estraneo al suo corpo, considerato onnipotente. Chandra Livia Candiani, dopo la morte della cara sorella, in Il silenzio è cosa viva, edito da Einaudi, si è posta la domanda: qual è il dove della morte? Ha risposto: “Lasciar depositare la notizia è un percorso lungo, che lo sappiano le ossa, gli organi, la pelle, gli strati di noi. Che si inserisca la notizia nella memoria, piano piano, senza l’esplosione del mattino. Lo chiamano lutto. Se accogli i suoi inviti, le sue chiamate a sentire la morte, interrompere tutto, sedersi o sdraiarsi e assaggiare l’assenza, allora è un dono. Se fingi che non ti chiami, se riempi ogni attimo di distrazione, ti fa a pezzi, brandelli di te che non stanno nell’intero del reale cambiato: aggiornare il file, con questo buco che vuole spazio, vuole ospitalità. Spesso si pensa che la soluzione al dolore sia altrove, ma è nel dolore la soluzione del dolore, sentendolo, abitandolo, assaporandolo, a poco a poco diventa parte di noi, non più un estraneo ma un ospite scomodo, irruente, tempestoso e infine un amante e dopo la fine un pezzo di noi”.
Valdrè, per quanto riguarda la teoria, dedica attenzione al pensiero di Andrè Green, per la clinica propone due casi interessanti, di cui uno centrato sul masochismo e attacchi al Sé, mentre per l’arte concede spazio a Woody Allen e al suo Blue Jasmine, alla disperata vitalità di Pasolini (“pochi autori, come Pasolini, rappresentano la testimonianza della morte dentro la vita”) e all’epopea americana della hopelessness, a Il suicidio dello scrittore: da Fitzgerald, a David F. Wallace a Richard Yates. Argomenta la psicoanalista genovese: “Se un’altra traccia di conclusione possiamo trarne, è che la maggiore, più potente, tragicamente irriducibile espressione della pulsione di morte è la coazione a ripetere. Questo è un libro sulla coazione a ripetere. La tragedia umana non è nella presenza del male, non nella presenza del trauma, ma nel fatto che il soggetto stesso che lo subisce in seguito, lui stesso, lo ripeterà. Su se stesso, a volte proiettivamente su altri. La scoperta è tanto semplice e sconvolgente da illuminare, da sola, tutto il mistero del destino umano”.
Non sono parole. Sono segni, marchi, evidenze. Destini. C’è vita, sostiene Valdrè, dove c’è investimento: “Senza una devozione, non ci restano che i desideri. E dunque il piacere, e dunque la ricerca di soddisfarlo, e il giro ricomincia. La devozione invece (che noi chiamiamo sublimazione) tende a pagarsi in sé. In ogni età, quindi, il mito contemporaneo della felicità a tutti i costi, dell’appagamento comunque, dell’assenza di conflitto, ha finito per rivelarsi fonte paradossale di infelicità da disinvestimento, da infelicità senza desiderio”.
Esistono anche libri su cui investire. Poco denaro, ma tanta intenzione. L’intenzione di comprendere, di accrescere la propria consapevolezza, di non restare muti, ignari, di fronte alla propria pulsione. Una riflessione psicoanalitica sulla vita e sulla morte. Una riflessione psicoanalitica sull’uomo. Fatto dell’una e dell’altra. Inestricabilmente intrecciate.
Il Foglio sportivo - in corpore sano