Jacques Derrida, il desiderio della scrittura
Simone Regazzoni, già allievo del filosofo francese, s’inoltra nel suo testo, mette a fuoco ciò che ha detto e scritto, ne scavalca il pensiero, ne intreccia vita e scrittura, ne decostruisce ogni singola forma per restituircelo sano, integro e, soprattutto, vero
Mi sono già espresso sulla bontà della Collana “Eredi”, edita da Feltrinelli e diretta da Massimo Recalcati. Dopo aver letto l’ultimo nato, Jacques Derrida. Il desiderio della scrittura, di Simone Regazzoni, il giudizio si conferma e accresce, poiché abbiamo bisogno di testi che presentino e illustrino l’opera di un filosofo o di un pensatore di rilievo anche a chi non è specializzato nella disciplina, senza tuttavia venire meno ai canoni della serietà o, peggio, scadere in caricature improponibili. L’operazione di Regazzoni è ardua, persino temeraria, ma riesce perché riesce a inoltrarsi in Derrida, a mettere a fuoco ciò che ha detto e scritto, a scavalcarne il pensiero, a intrecciarne vita e scrittura, a decostruirne ogni singola forma per restituircelo sano, integro e, soprattutto, vero.
Come gli uomini di carattere non possono non avere un brutto carattere, ci sono autori di carattere che non possono non essere amati o odiati. Senza vie di mezzo, senza giustificazioni di sorta. O/o e non e/e. Derrida è fra questi. Scrive Regazzoni: “Una cosa però è certa: c’è una grandezza di Jacques Derrida con cui occorre misurarsi – e lo sanno bene, e per primi, proprio coloro che lo hanno attaccato nel momento più duro: da Foucault a Searle. Una grandezza con cui misurarsi non per mera necessità di ricostruzione storiografica, ma perché nel nome di Jacques Derrida ne va dell’avvenire, dell’avvenire del pensiero – a fronte di un evidente fine della filosofia intesa come logos, discorso universitario, proliferazione saggistica”.
Non è (soltanto) grandezza di pensiero, non è (soltanto) grandezza di filosofia, tra l’altro, sostiene l’autore, non esiste alcuna filosofia di Derrida. Allora, che grandezza è? Chiarisce Regazzoni: “Quando penso alla grandezza di Derrida non penso semplicemente alla grandezza del pensiero di Derrida, come ci si potrebbe precipitare a dire secondo una formula usuale quando ci si occupa di un filosofo (in fondo che cosa dovrebbe interessare, alla filosofia, se non il pensiero?). Penso proprio a lui, a Jacques Derrida, alla grandezza di Jacques Derrida tout court, al di là della separazione tra pensiero e vita, filosofia e biografia, scrittura e bios – opposizioni concettuali già da sempre in decostruzione per Jacques Derrida. Non c’è bios, non c’è vita senza potenza grafica, senza traccia, senza segno: e questo disarticola un intero apparato concettuale, fino alla nozione in senso stretto di bio-grafia – fino all’esperienza stessa di vita del vivente che si sarà chiamato Jackie Derrida e poi, a partire dalla pubblicazione dei primi testi, si sarà firmato Jacques Derrida e che un giorno ha scritto: I’m destroying my own life”.
Nel corpo a corpo con Derrida, Regazzoni dedica un capitolo speciale alla invenzione della decostruzione: “È qui, nel corpo di questa scrittura autobiografica che si inventa la decostruzione: accade, trova o detta il proprio nome, c’è, ha luogo, senza tuttavia essere presente, senza essere nemmeno possibile, pensabile, definibile, senza essere niente – se non, in primo luogo, resistenza di una singolarità idiomatica e autobiografica alla teoria”. Che cos’è la decostruzione? “Ciò che resiste alla forma stessa della domanda metafisica per eccellenza, che si interroga sull’essenza di qualcosa. Giocando con la forma del giudizio di essenza Derrida scrive: ‘Che cosa non è la decostruzione? Ma tutto! Che cos’è la decostruzione? Ma niente’. Ed ecco che così Derrida lascia a mani vuote il filosofo che, attraverso il concetto, vorrebbe finalmente afferrare il cuore di questa cosa mostruosa che lo assilla. Il significante ‘decostruzione’ non rinvia a nessun concetto e a nessun senso: questa X resiste all’assimilazione concettuale, alla definizione, alla semantica. Un niente: ma che non lascia indifferenti, perché in questo niente all’opera nella scrittura c’è una forza non padroneggiabile”.
Si assiste, con Derrida, a un effetto spoliazione capace di tenere in vita ciò che viene spogliato. Aggiunge l’autore: “C’è dunque nell’opera di Derrida l’invenzione della decostruzione: ma non ha nulla a che fare con l’invenzione di una nuova filosofia, di un nuovo metodo, o con una radicalizzazione di altre forme di filosofia già presenti, come ad esempio l’ermeneutica di cui talvolta la decostruzione è stata vista come una radicalizzazione nichilista. Con la decostruzione Derrida è distantissimo anche da ‘colui che ho sempre ritenuto essermi più vicino tra tutti coloro che appartengono a questa generazione’, vale a dire Deleuze, e dalla sua ‘idea che la filosofia consista nel creare concetti’”.
Scrivere, per Derrida, è girare intorno a un vuoto, “Derrida in primo luogo desidera la letteratura come una scrittura attraverso cui raccontarsi, da assumere in prima persona”. È stato egli stesso a precisare: “Ciò attorno a cui ho girato, da una perifrasi all’altra, di cui so che ebbe luogo ma mai, secondo lo strano giro dell’evento di nulla, il contornabile o no che si ricorda a me senza aver avuto luogo, lo chiamo circoncisione”. E ancora: “Vivere senza più aver bisogno di scrivere… Il desiderio di letteratura è la circoncisione”.
Chiude Regazzoni: “La scrittura in senso stretto si inscrive in questa struttura. La scrittura per Derrida è un luogo privilegiato di auto-affezione, un’esperienza vitale-mortale di distruzione e costituzione dell’autos. Bisogna bere il pharmakon della scrittura per poter vivere: questo desiderio di morte, come in ogni sacrificio, è al contempo un desiderio di vita. In fondo si potrebbe riassumere l’autobiografia totale di Jacques Derrida con queste parole: ‘I’m destroying my own life’. Dove distruggere si dovrà già intendere come salvare”. Mi sembra che non via altro da aggiungere, nulla da distruggere e tutto da salvare. Leggendo Regazzoni leggiamo Derrida. Questo si chiede a un libro su Derrida.
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