Donatella Di Cesare, sulla vocazione politica della filosofia
Per ritrovare un’esistenza non vana, per riconoscere l’angoscia, la malattia mortale, per ambire a una exofilia antinarcisistica e a una pratica del risveglio, per darsi nuovi compiti sovversivi, la filosofa italiana vuole articolare “un anarchismo della responsabilità”
“La filosofia non deve profetizzare, ma neppure dormire”, dice Martin Heidegger posto a esergo del nuovo libro di Donatella Di Cesare, Sulla vocazione politica della filosofia, edito da Bollati Boringhieri, un libro che intende restituire alla filosofia il proprio significato, interrogando sé stessa e i filosofi sulla sua vocazione politica e su un destino (politico) possibile. L’itinerario filosofico ha un arco che si estende da Eraclito ai giorni nostri, dalla nobiltà di una forma e di un tempo al vuoto di oggi, dall’atopia di Socrate, che beve senza fare una piega, all’accomodamento scialbo di oggi, dal fuori esteso di ieri al dentro asfittico di oggi, dalla veglia di ieri al sonno di oggi o, peggio, a un sempre svegli 24 ore al giorno per 7 giorni perché costretti, magari dormienti e sonnambuli barcollanti davanti ai monitor perennemente accesi. Scrive l’autrice: “La veglia è stata sin dall’inizio tema peculiare della filosofia. Al punto da divenirne la rappresentazione simbolica, la metafora perspicua che la precede, prima ancora che la filosofia abbia un nome. Misterioso sorgere del lume interiore che segna il riaffiorare dalla notte, forza del richiamo, stupore della vita che si desta, ritorno a sé: questo è anzitutto la filosofia”.
“Filosofia è filosofare”, dice ancora Heidegger. Materia che sfugge alla catalogazione, libertà di pensiero, sorveglianza attenta prima su di sé, poi sugli altri: “Il cittadino che dorme non è solo apatico e alogico, ma anche apolitico e anomico. Smette, anzi, di essere cittadino, si unisce ai suoi morti, nel loculo privato, che è al contempo il sepolcro del pubblico. Si rigira nei suoi abbagli, nei suoi incubi, nei vagheggiamenti, nelle allucinazioni. Ciascuno è per sé. Forse nessuno resta a vegliare sulla pὀlis, proprio quando, nella notte della città, il mondo sembra andare a fondo. Eppure no, c’è un’eccezione, o meglio, due: il saggio dio che vigila sulle mura e il suo adepto vicario, il filosofo, che sorveglia attento all’interno, in modo che quell’aperto luminoso non si chiuda per sempre sull’idiozia privata”.
Il filosofo sa di non sapere. Socrate sa di non sapere. Tanti altri filosofi, soprattutto del nostro tempo, hanno saputo di sapere fin troppo e svenduto l’anima propria e quella della filosofia, che non si lascia ridurre al protagonismo eccitato sotto i riflettori abbaglianti. La domanda, soltanto la domanda, talvolta impossibile, illuminava il cammino di Socrate. E lo stupore. Aggiunge Di Cesare: “Filosofare è anzitutto guardarsi intorno con stupore, interrogarsi con meraviglia. Più che un agire, è un patire. È dunque un páthos, una passione che afferra, a cui non è possibile sottrarsi. Chi filosofa è ineluttabilmente preso da stupore. E vale il reciproco: chi non prova stupore, non può filosofare”.
La filosofia non insegue il progresso. Non è la scienza. Spiega Di Cesare: “Manca il bersaglio chi indica il compito della filosofia in un accumulo di conoscenze, nell’impresa di giustificare concetti, metodi e scopi delle scienze o di offrire a queste una ‘fondazione ultima’. La filosofia non viene dopo la scienza – la precede. È già all’inizio. Il suo dominio, ben più vasto, è un paesaggio vario, mosso, frastagliato, dove le salite sono ardue, dove svolte e tornanti si susseguono, dove i sentieri possono improvvisamente interrompersi. Anche se dovesse giungere in cima, chi filosofa non trova appagamento nella conoscenza che prima non aveva, nella soluzione del problema. Anzi, è ancora più inquieto e tormentato, perché dall’alto di quel promontorio, che immaginava fosse un’alta vetta, con più chiarezza vede tutto ciò di cui è all’oscuro. E tuttavia prosegue, inquieto e turbato. Lo stupore del filosofo non è ingenuo, non si compiace alla vista di un ente, prima ignoto, che finalmente sembra in grado di sondare. Il suo è uno stupore potenziato, quasi un’altra passione. Perché c’è qualcosa e non il nulla”.
L’atopia di Socrate è un capitolo denso e avvincente. È l’atto di fondazione. Nota Di Cesare: “Socrate è l’archetipo del filosofo. Il che vuol dire che sin dall’inizio la filosofia è altamente estraniante. Non fa per tutti. Non acquieta, non consola, non rassicura. Per alcuni è uno svago inutile, un trastullo puerile, mentre per altri è un gioco pericoloso, che stordisce, dà ebbrezza, porta alla rovina”. Se per Cicerone “la vita del filosofo…è tutta una preparazione alla morte”, per Montaigne “filosofare è imparare a morire”. Poi, anche questa riflessione intensa e ineluttabile ha in parte mutato il suo corso, è stata addomesticata, rimossa. Non certo da Socrate, che “nell’istante della morte diventa testimone del mondo postpolitico, si erge a tedoforo della filosofia. Già estranei alla città, i filosofi diventano stranieri ovunque nel mondo. Né potranno mai dimenticare la morte di Socrate, quell’orrendo scandalo che, nel loro esilio, sarà monito di un conflitto latente, provvisoriamente sopito e solo rinviato con la città”.
A che serve la filosofia? Che cos’è la filosofia? La domanda, dimostra Di Cesare, appoggiandosi a Heidegger, “scaturisce dalla filosofia”. E continua: “La filosofia non è una disciplina (sebbene sia stata in parte istituzionalizzata), non è un sapere specialistico, né un mestiere, né un’occupazione. Vaga qui e là, anche sulla pubblica piazza, in forme diverse, travestimenti molteplici; a volte sembra filosofia, e non lo è, altre volte non sembra, e invece lo è”.
La filosofia ridotta alla negoziazione o alla normatività non è filosofia, o ne è una pessima copia, mentre tra i due millenni ha fatto un mesto rientro in città come ancella della democrazia. A capo chino, come se dovesse scusarsi e farsi ri-accettare: “Così è diventato raro leggere testi filosofici che, senza aggirare la fatica del concetto, abbiano una forza evocativa e poetica”. Di Cesare, infatti, dopo Eraclito, Socrate e Platone, si affida a Heidegger, a Marx, a Kierkegaard, a Benjamin e, nelle pagine finali, a Lévinas, per ritrovare un’esistenza e una pratica non vane, per riconoscere l’angoscia, la malattia mortale, la questione centrale di ogni singola esistenza, per ambire a una exofilia antinarcisistica e a una filosofia del risveglio, per darsi nuovi compiti: “Nuovi compiti di una filosofia sovversiva pronta a immergersi nel ventre fantasmagorico della metropoli, che è patria del consumo, tempio del capitale”.
La frattura resta insanabile, ma “la filosofia torna, sconfitta, per stringere un’alleanza con gli sconfitti. Nessun filosofo-re, nessuna sovranità”. La filosofia è chiamata a interrogarsi sull’arché. Chiude Di Cesare: “L’atto archico che guida una politica ridotta a governance poliziesca, volta a depoliticizzare il mondo, può essere disdetto da un’anarchia che, mantenendo il suo valore prepolitico, antipolitico e metapolitico, sia perturbazione dell’ordine. Ciò richiede una ripresa critica dell’anarchismo classico che, ancorato alla metafisica, finisce per costituirsi come principio, riproponendo quella sovranità archica che dovrebbe invece contestare. L’accento sulla libertà ne è una prova e attesta che il protagonista è il soggetto autonomo e autarchico. Si tratta invece, muovendo dalle molteplici e differenti forme che l’anarchia va prendendo nello scenario contemporaneo, di articolare un altro anarchismo. In un’epoca in cui lo Stato, minato nella sua sovranità, cerca di controllare e saturare ogni spazio politico, è necessario volgere lo sguardo non solo all’esterno dei confini, ma anche all’interno del suo territorio, nei luoghi e nei tempi interstiziali che si aprono. Perché la politica è una domanda di giustizia, occorrerà articolare un anarchismo della responsabilità”.
È possibile essere anarchici e responsabili? Questa è un’altra domanda per la filosofia che non muore, per la vocazione politica della filosofia.
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