Colette Soler, Lacan e l'Altro
Tre libri dell’allieva del grande psicoanalista francese per continuare a interrogarsi sulla paura, sull’inconscio, sul reale, sugli affetti, sul destino della psicoanalisi
Prendete Avventi del reale. Dall’angoscia al sintomo, di Colette Soler, edito da Praxis del campo lacaniano, e capite che esiste un modo particolare, pieno di acume e sensibilità, per argomentare su Jacques Lacan e sulla psicoanalisi in toto, su quanto questa disciplina abbia ancora da dire e fare nell’epoca della solitudine e dello smarrimento. L’allieva del grande psicoanalista francese sa bene che il successo bisogna farselo perdonare e, in molti, alla psicoanalisi non perdonano l’intestazione di una funzione terapeutica che mira a vedere le carte del dolore puntando a far stare meglio, eliminando le maschere, cercando di restituire all’uomo il suo vero volto. Ma l’uomo si difende, ha paura. Di che cosa ha paura? Scrive Soler: «Le paure sono multiple: vi è dapprima la paura di sé, come si vede in modo limpido nelle fobie d’impulso, paura dell’incontrollabile, impossibile da contenere. Ma qual è questo sé che si teme? Questa paura del sé è sempre in ultima istanza una paura di qualche cosa extima (qualcosa di esterno e intimo, ndr), qualche cosa che vi divide e che, in ultima istanza, viene dal corpo, le eccitazioni, i desideri, le pulsioni, i sintomi, in breve, i godimenti con le loro conseguenze possibili, spesso indesiderabili. E poi vi è la paura degli altri quando rappresentano un pericolo, di cui gli attentati ci danno un’esperienza attualizzata. Tuttavia la paura che i terroristi ispirano non differisce che per la sua entità e portata politica dal caso più conosciuto dei delinquenti comuni, degli psicopatici, dei malati mentali, tutti questi soggetti che si dicono pericolosi e di cui si occupano le istituzioni di Stato come la polizia o la psichiatria. E poi vi è quella che ispira l’Altro maiuscolo. Questa è la più conosciuta in psicoanalisi, ciò su cui Lacan ha molto insistito nel suo seminario L’angoscia».
Ma chi è l’Altro maiuscolo? Aggiunge Soler: « Dacché si parla dell’Altro maiuscolo, ossia di colui che parla e di cui il desiderio fa domanda, l’Altro del linguaggio supposto dalla parola è ugualmente convocato. Di conseguenza, non si può più pensare i due tipi di pericolo come ha fatto Freud, distinguendo ciò che viene dall’interno e ciò che viene dall’esterno. In effetti, l’Altro del linguaggio che precede il soggetto e che lo accoglie nel suo bagno, esterno dunque, è anche costituente del soggetto stesso, è la sua altra scena. Non si può più dirlo esterno al soggetto».
Si può anche giocare con la paura. E Soler si sofferma sugli spericolati, sul godimento del rischio, sulla propensione a giocare con l’angoscia, a farsi paura: «Giochiamo a farci paura perché della paura se ne può fare un divertimento, un’eccitazione nella quale si gode della paura in tutta sicurezza». Il libro ha la forza di condurre il lettore-paziente all’interno dei meccanismi che la scatenano, mettendolo di fronte al reale, all’avvento del reale: «Questo termine di avvento, utilizzato a proposito del reale, può sembrare paradossale. Come lettori di Lacan saremo meno sorpresi di sentir parlare di avventi del simbolico, tanto più che il termine avventi ha delle consonanze spesso esplicitamente religiosi. Vi è dunque una prossimità con la parola evento, il termine designa qualche cosa che arriva ma che non è anodino, che è decisivo, che dunque ha degli effetti, qualche cosa di memorabile, che è una pietra miliare, come si dice. Ma è anche il caso dell’avvento, quello di essere memorabile». Come l’avvento della psicoanalisi, mi verrebbe da scrivere: memorabile. Soler, in un’intervista con Massimo Recalcati, ha dichiarato: «La psicoanalisi non è cosa facile, devo ben dirlo, perché è un lavoro contro la rimozione, contro il non voler sapere niente dell’inconscio, è un lavoro lungo e accompagnato spesso da affetti dolorosi, e originari. Da qui viene la domanda che spesso si sente porre: ne vale la pena? Ebbene sì, vale la pena di disalienarsi dall’altro, dagli altri che l’hanno rappresentato, vale la pena di sapere di che cosa si soffriva, di sapere anche che cosa ci risulta impossibile, e di arrivare a noi stessi, a ciò che siamo nella nostra singolarità».
Ma di Colette Soler non posso non segnalare altri due titoli, editi da Franco Angeli: Lacan, l’inconscio reinventato e Gli affetti lacaniani, rimandando ad altra occasione l’esame di Quel che Lacan diceva delle donne. Studio di psicoanalisi. Nel primo, si affrontano i temi dell’inconscio, del reale, dell’analisi orientata verso il reale, della clinica rinnovata e delle prospettive politiche, con un finale dedicato alla domanda delle domande: che vuole lo psicoanalista? Afferma l’autrice: «Quel che è escluso è che egli possa imporsi sul discorso del suo tempo senza uscire dal suo, che non mira a rettificare i costumi, ma ad analizzare i sintomi e a ridurli – per chi lo chieda – fino al sintomo fondamentale. L’etica del ben-dire è relativa al discorso analitico. Da qui il problema, per gli analisti, di sapere come situarsi nella politica del tempo, senza rinnegarsi ma senza andar oltre il sapere che la loro esperienza deposita. Come risolvere questo dilemma? Gli scogli sono innumerevoli: demagogia e civetteria d’un lato, purismo fuori tempo dall’altro, ne costituiscono i due poli opposti, che generano quella crescente idiozia professionale proporzionale al loro autorizzarsi in materia di pubblico destino. Lo si verifica caso per caso: e non perdona. E tuttavia, non si può dubitare che la politica della psicoanalisi non imponga allo psicoanalista di far premio sul mercato, come Lacan indicava nel 1974, poiché la sua pratica è sospesa al transfert dei soggetti. Impossibile per la psicoanalisi dissociarsi dalla politica del discorso del suo tempo. Sempre che sia proprio lei a farsi intendere. È una vera fortuna che così spesso gli psicoanalisti d’oggi siano così conformi che più li si ascolta e più nasce il sospetto che la sovversione analitica abiti altrove! Forse presso coloro che ancora osano tentare l’avventura di un’analisi pur senza sapere in anticipo dove essa li condurrà».
Nel secondo testo dell’editore milanese, Soler parte dalla ripetizione, dalla nevrosi, dall’arresto freudiano per analizzare l’angoscia, l’affetto di separazione, la malattia dell’umore del capitalismo, la teoria degli affetti, la serie lacaniana delle passioni dell’essere, della collera, della vergogna, gli affetti enigmatici e quelli analitici. Nella premessa all’edizione italiana, Maria Teresa Maiocchi e Carmine Marrazzo notano: «Ed ecco che quella irta zona finale dell’insegnamento lacaniano, che Colette Soler già ha vagliato come “reinvenzione”, prende ancor più rilievo con questo testo sugli affetti, che abbraccia l’intera traiettoria e fa vedere un legame strutturale tra affetti e reale, inconscio reale. Al punto che – il passaggio è chiave nel testo – emergono affetti non articolabili, “affetti enigmatici” per il soggetto, “che rispondono […] all’avvicinarsi d’un reale di cui sono testimoni”».
Sono questi i tre libri dell’allieva del grande psicoanalista francese per continuare a interrogarsi sulla paura, sull’inconscio, sul reale, sul destino della psicoanalisi e sul narcinismo, termine da lei felicemente coniato poiché mette insieme due malattie che ne fanno sorgere una terza, non meno pericolosa delle altre due. Senza dimenticare che nei Quaderni di Praxis ci si può inoltrare con la certezza di trovare la risposta alla nostra domanda. Magari per aprirne altre, sempre nel segno di una ricerca continua dietro la guida illuminante e lo sguardo attento di Colette Soler.
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