Ratzinger, Bergoglio e l'Abitudine al Cristianesimo
Nel nuovo libro di Antonio Carulli riflessioni sulle migrazioni, sulla politica, sulla crisi della cultura e un potente j’accuse contro la civiltà cristiana che ha smarrito il senso del Mistero
A un anno esatto dalla conturbante Metafisica delle mestruazioni e dalla fortunata Introduzione a Sgalambro (pubblicati nella gialla de Il melangolo) ritorna nelle librerie Antonio Carulli con Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico, edito da La scuola di Pitagora, con la prefazione di Marco Fortunato, studioso (non a caso) rensiano di vaglia.
Il testo - il sesto del giovane autore barese - prosegue il percorso iniziato ormai da più di un lustro e lo fa secondo gli stilemi che abbiamo imparato a conoscere: la totale assenza di note, l’italiano alto, il dire ora preciso ora carico di quella sprezzatura che non perdona, le soluzioni inaspettate e oblique, una profonda conoscenza filosofica e teologica. Se c’è una figura che oggi pratica una saggistica formalmente e non immediatamente riconducibile all’Accademia (per quanto ne sposi la forza della conoscenza disciplinare) è proprio Carulli. Dietro un libro apparentemente versato nell’attualità, l'autore non manca di rimarcare le proprie distanze rispetto a ogni impegno politico, come pure rispetto alla Chiesa troppo militante di Bergoglio, mai peraltro esplicitamente nominato.
Il sottotitolo recita Trattato teologico-politico e di questo in fondo si tratta, di una decrittazione che scandaglia il magma, accende luci e denuncia aporie di una deriva che investe ogni cosa del credere e del pensare: un libro chiuso, fatto di ragionamenti estenuanti e scatole cinesi speculative, ma in cui l’accusa è sempre dolente e generosa. Obiettivo di questo lavoro è, a partire dal titolo che rovescia la famosa enciclica, quello di una radiografia del Cattolicesimo attuale dove il divorzio di fede e ragione si è consumato da tempo e dove il Cristianesimo è diventato una abitudine stracca e mal sopportata nella società che conta. Del rapporto fede e ragione parlano solo gli studiosi, non di certo l’uomo della strada che si accontenta di prendere l’ostia la domenica sul palmo igienico della mano, per poi comportarsi da insipiente nei restanti giorni della settimana.
Carulli dichiara di scrivere sotto due papi e lo fa con una dose potente di realismo: stupido è chiedersi come dovrebbero andare le cose; saggio è invece spinozianamente comprenderle senza piangere o detestare. E questo accade lungo le pagine sovente tortuose e involute, non senza che ci sia un vero motivo, nella trattazione di una materia così bruciante, che non scade mai a mera morfologia ma risale su su fino alle cause di un simile stato. La vita del cristiano attuale, nel mondo secolarizzato, sarebbe quella che lo vede impegnato col funerale dei propri cari, il battesimo al nipotino, l’abito bianco della figliola ma solo perché il matrimonio in comune sarebbe privo di quella poesia che ogni invalsa costumanza imbolsita pretende sbattendo i pugni sul tavolo.
Un ritratto impietoso della condizione in cui versa la religione attuale per niente dettato da delusioni, sentimenti di rivalsa o chissà cosa. A parlare è un non credente dichiarato che osserva con attenzione il mondo cattolico, non fosse altro perché esso è espressione altissima di quella forma culturale (è solo questo il Cristianesimo, per Carulli) che l’Occidente va smarrendo sottoposto com’è all’assalto di altre religioni, nella fattispecie l’Islam. Sennonché, la forma di astenia che ha preso a investire l’Occidente è ciò che alla fine lo salverà dalla invasione degli islamici. Nell’Abitudine al Cristianesimo, espressione coniata da Carulli, il Cristianesimo ha trovato una sorta di astuzia della ragione che gli allunga la vita, una forma di religiosità naturale in linea con i tempi della secolarizzazione, che finirà per spuntare le lance degli assalitori interni e soprattutto esterni.
Nella parte centrale del libro, Carulli, novità rispetto alla produzione precedente, entra nel terreno dell’attualità lasciandosi andare sempre a considerazioni meta-politiche in maniera tale da preservare dall’invecchiamento necessario le sue tesi. Il fanatismo etimologicamente rischiarerebbe la nostra religione, i terroristi islamici agirebbero spinti dall’ossessione di diventare abituati come noi, nel migrante vi sarebbe la dialettica tra la vecchia politica di bisogni e la democrazia che notoriamente cola, perché essa nella sterilità del ciclo femminile organizza il suo presente eterno (un capitolo, questo, originalissimo e da leggere come sviluppo politico della Metafisica delle mestruazioni che segue di appena un anno).
L’ultima parte del libro è impegnata da una trattazione dell’annosa questione dell’essere e del nulla. Dinanzi alla distruggibilità totale degli essenti finiti o alla preservazione eterna di quelli predicata dai neo-parmenidei, Carulli sceglie una soluzione che non ci lascia indifferenti: tra creature e Creatore (che l’autore non intende mai in senso volgarmente creazionistico) si instaura un chiasmo tale per cui neppure con la nostra morte raggiungiamo quel nulla di cui Dio per primo avrebbe timore. Carulli sa bene e cita quel Leibniz per il quale morire è occupare lo spazio minimo dinanzi a Dio. E ne trae le dovute conseguenze. Siamo essenti in asintotica diminuzione, che dopo la morte prendono la strada verso il nulla senza mai raggiungerlo: essenti modificabili infinitamente e eternamente tesi al poco-più-di-niente di un osso, di un dente o di un capello. Così in ciò che il Cristianesimo abitudinario venera distrattamente come reliquie si conclude in gloria (è il caso di dire) una storia ben più alta e piena di significato ma inevitabilmente scaduta. Si attendono sviluppi (dalla cosa in sé e dall’autore, ça va sans dire).
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