La “vita sbagliata” di Galeazzo Ciano
Eugenio Di Rienzo scrive un libro di notevole importanza sul genero del Duce e sul Ventennio. Evidenzia in modo convincente, intorno al famoso “Diario”, le contaminazioni di una narrazione contraddittoria, che aveva un unico obiettivo: avvalorare la tesi di un fascismo buono e presentabile in alternativa a quello cattivo e perdente. Ma è anche una lezione per i “professionisti dell’antifascismo”, che non operano analisi lucide e disinteressate
«I due si corteggiano con gli sguardi in alcuni ricevimenti e hanno il loro primo tête à tête, il 17 gennaio 1930, durante un ballo di beneficenza organizzato da una comune amica, nelle sale del Grand Hotel di Roma, dove Edda lodò “l’intelligenza di Galeazzo”». Edda, ovviamente, è la figlia prediletta di Mussolini e Galeazzo è Ciano, il futuro genero, uomo ambizioso, pronto a volgere l’interesse del Paese al proprio interesse, prototipo di una classe dirigente italiana che nel tempo ha sempre reiterato i propri vizi, figlio di Costanzo, conte di Cortellazzo e di Buccari, eroe della Prima guerra mondiale, legato alla grande finanza.
Ciano. Vita pubblica e privata del “genero di regime” nell’Italia del Ventennio nero è il notevole libro di Eugenio Di Rienzo, per i tipi della Salerno editrice. Notevole perché smaschera ciò che si volle, e ancora si vorrebbe, ritenere vero; notevole perché descrive con oculatezza, senza eccedere, anche la parte di questo incontro che segnerà il destino di due famiglie e, ciò che più conta, di un Paese finito malissimo. Famiglia e Paese aderiscono e si confondono come ben spiega l’autore: «A considerarla nell’intima essenza, sfrondata dalle giustificazioni interessate e dalle condanne aprioristiche, la vicenda di Galeazzo Ciano rivela la sua genuina natura di “storia italiana”, connotata da quel “familismo” (immorale), che tanto ha condizionato e, ancora oggi, tanto pregiudica la vita del nostro Paese. Quella di Ciano è, infatti, una vicenda pubblica dove le grandi decisioni della politica non sono mai prese alla luce del sole, nei luoghi deputati del potere ma piuttosto alla penombra, al fioco lume dei focolari di nuclei domestici nei quali forte aleggia un odore di chiuso impastato del sentore graveolente di rivalità e di beghe di famiglia».
Il libro è notevole perché evidenzia in modo convincente, intorno al famoso Diario, tutti i trucchi, le manomissioni, le contaminazioni, le mistificazioni di una narrazione contraddittoria, che aveva come unico obiettivo la presentazione di un fascismo buono in alternativa a quello cattivo e perdente. Scrive Di Rienzo: «Fu la redazione del Diario, accanto a tante operazioni mal riuscite, il vero, se non davvero l’unico, capolavoro politico del consorte di Edda. Nella ben congegnata trappola, a effetto retroattivo, costruita con quelle pagine, fintamente e pignolescamente annotate, sono caduti, infatti, tutti i suoi biografi (con l’eccezione di Duilio Susmel). Né hanno evitato quel trabocchetto molti analisti dell’ultima fase del regime fascista (non escluso Renzo De Felice e buona parte della sua scuola). Testimonianza fedele e addirittura inoppugnabile, il “giornale di bordo” di Galeazzo apparve immediatamente, d’altra parte, ai suoi primi qualificatissimi e meno qualificati lettori. Tale la reputò un diplomatico di lungo corso, come il sottosegretario di Stato statunitense, Benjamin Sumner Welles, che pure aveva sperimentato personalmente la doppiezza di Ciano durante le trattative diplomatiche che precedettero la fatale data del 10 giugno 1940. Eguale giudizio ne diede Ugo D’Andrea, prefatore della prima incompleta edizione italiana del Diario, pubblicata da Rizzoli nel 1946, che, trasformatosi da “giornalista di regime” in “fascista pentito”, considerò quel documento “come il libro che, più di ogni altro, ha saputo descrivere la nostra decadenza di Nazione, mostrando come la tirannide avvilisca, deformi e corrompa il costume e la dignità di un popolo e apra le porte all’invasione straniera”».
Libro notevole perché smonta con nettezza le finte diatribe e i discutibili dissidi tra suocero e genero (che pure ha sempre sognato di prendere il posto del primo), perché rappresenta con giustezza e sobrietà le avventure di un italiano particolare, dalla bella gioventù di amante focoso al matrimonio di regime in contrapposizione al matrimonio reale, dal culto esclusivo a Mussolini e a Lenin (“i due soli grandi uomini del Ventesimo secolo”) alla segreteria di legazione in Cina, dai rapporti con il Vaticano, il solito Vaticano, alla “Caporetto greca” negli anni della “Grande scacchiera” 1937-1941, dagli anni del Talleyrand del fascismo nella fase 1941-1944 alle congiure, ai complotti, ai labirinti del 25 luglio, alla fucilazione, quando Ciano «diede prova di un coraggio fisico, che non lo aveva mai abbandonato, ma cui aveva sempre fatto riscontro la mancanza di ogni tempra morale».
Libro notevole perché la materia di trattazione è sempre ostica, scomoda, passibile di interpretazioni ideologicamente viziate. Annota Di Rienzo: «Per arrestare una possibile rinascita del fascismo, di cui tanto si vocifera, forse più per pretesto che per ragione, non servono né proclami né leggi né “grida” manzoniane. Per farlo, invece, occorre un’analisi del passato lucida e disinteressata, diversa, quindi, di quella fatta dai tanti “professionisti dell’antifascismo” ma, all’occorrenza, spietata come deve essere la mano del chirurgo che affonda il bisturi nel corpo del malato. Ed è forse per tale motivo che nelle pagine seguenti ho mancato, e di questo qui mi scuso con i lettori, a uno dei primi doveri dello storico: la pietas. Quel sentimento che Benedetto Croce raccomandava di non abbandonare mai anche per il giudizio sul Ventennio, esortando chi volesse investigare quel periodo, “a toccare del male, solo per accenni, necessari al nesso del racconto, di dare risalto al bene che, molto o poco, allora venne al mondo, o alle buone intenzioni e ai tentativi, e altresì di rendere aperta giustizia a coloro che si dettero al nuovo regime, mossi non da bassi affetti, ma da sentimenti nobili e generosi, sebbene non sorretti dalla necessaria critica”. Un caso, questo, che però non riguarda la “vita sbagliata” di Galeazzo Ciano».
Vita che andò perduta, insieme alle tante favole, lasciando però in eredità un patrimonio. Grazie agli effetti del Diario. Una sentenza della Cassazione diede ragione ai suoi eredi. Chiude Di Rienzo: «Inoltre, la Cassazione accoglieva, trovandole non infondate, “le doglianze degli eredi di Ciano i quali hanno lamentato che il tribunale non abbia preso in considerazione la discriminante prevista dall’articolo settimo della detta legge speciale per coloro che si sono particolarmente distinti nella lotta contro il tedesco invasore”. Pertanto, post mortem, al cospetto del massimo organismo giurisdizionale della Repubblica, l’imputato Ciano veniva, dunque, assolto da ogni addebito, completamente riabilitato e addirittura insignito del titolo di “martire della guerra di liberazione”. Nel segno di una deliberata mistificazione del passato, iniziava, così, il lungo dopoguerra italiano».
Dopoguerra, per certi versi, ancora in corso se i “professionisti dell’antifascismo” continuano a opporre, alla lucidità e all’analisi disinteressata, lo sguardo bieco di chi non ha alcun interesse a mollare la presa …dell’interesse. La lezione di Di Rienzo arriva con un libro notevole perché, da storico, insegna ancora una volta che la Storia non può essere un abito da ritagliare su misura talvolta su quel personaggio o evento talora su altro personaggio e altro evento. La Storia ha una sua dignità, non una “prova regina”, e va rispettata. Sennò non è Storia. Quella di Di Rienzo lo è perché sa che «come sempre accade, nell’analisi storica non esiste nessuna “prova regina” a favore di quanto stiamo affermando (lo storico, infatti, può portare a termine solo un processo indiziario)». Ma gli indizi e le testimonianze possono risultare convincenti e corroborare una tesi meglio delle presunte verità che, in quanto presunte, sono destinate a sciogliersi come neve al sole.
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