Emanuele Severino, lo smascheramento della Follia
Con “Testimoniando il destino”, da oggi in libreria, il più importante e significativo filosofo italiano vivente ripercorre, sottolinea, chiarisce i punti nevralgici di un pensiero che da decenni si impone all’attenzione della cultura internazionale, il linguaggio di un fondamento che continua a stupire e a scuotere, come sa e deve fare la filosofia quando è vera filosofia
In Testimoniando il destino, edito da Adelphi, Emanuele Severino …testimonia la forza di un pensiero che da decenni s’impone sul panorama filosofico internazionale, volando come aquila vola. Ho letto in anteprima e con assoluta e piacevole intensità le pagine di questo ultimo libro, oggi in uscita, per ripercorrere, sottolineare e chiarire i punti nevralgici di una storia filosofica che mai avrà fine, vorrei dire eterna, in onore al suo protagonista. Quindici capitoli e diciannove postille per spaziare da Destino della necessità a Tecnica e architettura, passando per Dike, Essenza del nichilismo, Fondamento della contraddizione, La Gloria, La morte e la terra, La struttura originaria e altri testi che danno forma all’intero mosaico.
Continua a coltivare il campo, Severino: «Non basta possedere un campo: bisogna coltivarlo. Il campo di cui qui si tratta è l’insieme dei ‘miei scritti’. Un linguaggio, dunque. E anche questo libro intende indicare l’autentica “pianura della verità”. Non è immodesto, perché esso è soltanto il segno che la indica. Il segno va coltivato. Quella pianura non ne ha bisogno. Non può nemmeno esser posseduta da alcuno. Essa è anzi l’essenza profonda per la quale si è qualcuno. D’altronde, che un certo individuo possegga il campo di quegli scritti è una fede, una volontà che le cose stiano in un certo modo. Essi dicono da tempo che la loro esistenza – quindi anche l’esistenza di questo loro dire – è il contenuto di una fede. È cioè un contenuto siffatto che un certo individuo ne sia l’autore e il possessore».
A chi accusa improvvidamente Severino di essersi fissato sul nulla, di ritornare sempre sullo stesso luogo del delitto, risponde Luigi Vero Tarca: «Accusare Severino di essere fissato con il nulla sarebbe come accusare Paganini di essere fissato con il violino, o Tiziano di essere fissato con il rosso. La questione del nulla sta al centro del pensiero filosofico, e dal modo in cui si tratta questo problema dipende in qualche misura tutto il resto; c’è da meravigliarsi, allora, che il filosofo torni continuamente – si dica pure “ossessivamente” – sullo stesso tema? Sia Heidegger che Wittgenstein, pur così diversi, hanno mostrato che la filosofia è caratterizzata proprio da questo infinito ritornare sullo stesso punto: “Ogni frase che scrivo intende già il tutto, e dunque sempre di nuovo la stessa cosa”, afferma il filosofo austriaco in Pensieri diversi».
La parola severiniana, il linguaggio di un fondamento che continua a stupire e a scuotere, come sa e deve fare la filosofia quando è vera filosofia, l’indugiare necessario su ciò che è e su ciò che vorrebbero (gli altri) far divenire altro, restano i nodi cruciali sui quali il filosofo non smette di meditare: «D’altra parte, poiché l’insieme dei mei scritti tende a formare un unico blocco dove il tema centrale è il destino della verità, questo libro non può non sottintendere il modo in cui essi si configurano concretamente. Sviluppa un insieme di analisi, voltandosi indietro; e guardando il cammino percorso ne approfondisce il senso. Un cammino non breve (ma la pianura del destino è infinita), che indica l’essenza autentica del fondamento di ciò che con verità può esser saputo in terra e in cielo. Indica anche alcuni tratti decisivi di ciò che è implicato da tale fondamento. Bastano a mettere in questione ogni forma della sapienza dell’ 'uomo'».
Severino non molla la presa sulla Follia estrema, anzi insiste nel mostrarla ancora una volta con esemplare nitidezza: «L’errare avvolge anche la critica che ha condotto al tramonto il tentativo della tradizione filosofica di portare alla luce il sapere innegabile. Sia gli amici sia i nemici di esso hanno la stessa anima. Ma si può scorgere l’alienazione essenziale di quest’anima se ci si trova in una dimensione dove l’apparire dell’innegabile non è più un sogno ma è la Veglia autentica, il destino della verità. L’alienazione essenziale, la Follia estrema – in queste pagine lo richiamiamo ancora una volta – è la fede nella quale si crede che le cose diventano altro da ciò che esse sono. La filosofia, nascendo, porta al culmine questa fede, affermando che l’evidenza suprema è che le cose escono dal nulla (dal loro non essere) e vi ritornano. All’interno di tale fede cresce la storia dell’Occidente, e ormai la storia del Pianeta: non solo la storia delle sapienze, ma anche delle istituzioni, delle opere. E si giunge alla negazione inevitabile di ogni dimensione immutabile, quindi di ogni verità innegabile. Nella sequenza dei miei scritti La struttura originaria (1958) compie in modo determinato il primo passo nella direzione dello smascheramento della Follia di questa fede. Tutti gli scritti successivi mostrano che cosa è necessariamente implicato da questo passo iniziale. Lo smascheramento della Follia è lo stesso consentire al linguaggio di testimoniare l’assoluta innegabilità del destino della verità».
Nel capitolo dal titolo Apparire e osservazione; destino e scienza segnalo un passaggio di notevole importanza su scienza e filosofia, sulla volontà di potenza della scienza, sulla volontà di verità che è la filosofia. Scrive Severino: «La tecno-scienza è destinata a ritrovarsi nella situazione che finisce col farla sfociare nella filosofia, ma che dapprima è il luogo dove la tecno-scienza vuole la potenza e non la verità; dove dunque la sua potenza sul mondo è un caso, che non cessa di essere tale anche se la scienza dispone di moltitudini di regolarità empiriche che “confermano” l’esistenza di tale potenza – ma dove la volontà di potenza non può accontentarsi di esser casualmente e oniricamente potente. Si presenta così un circolo. Che però non può ripetersi indefinitamente perché il dominio della civiltà della tecnica è una contraddizione specifica che è necessariamente tolta, prima del necessario tramonto della terra isolata (e La Gloria mostra appunto questa necessità), dal sopraggiungere dell’evento, ossia dell’eterno in cui tale contraddizione è assente – dove tale evento è il tempo in cui il destino della verità è testimoniato dai popoli, che prima del tramonto della terra isolata sono ancora volontà di potenza, ma anche conoscono la non verità di questo loro essere».
Se Popper usava il nome di Parmenide per chiamare Einstein, Severino può essere chiamato soltanto Severino, cifra e misura di originalità: «Va però tenuto presente che la “logica” in base alla quale la teoria della relatività afferma che ogni cosa è eterna è essenzialmente diversa dalla necessità a cui si rivolgono i miei scritti. Ormai la scienza — coinvolgendo quindi anche la teoria della relatività — riconosce il carattere ipotetico e provvisorio delle sue tesi, anche di quelle più “confermate”. Ed è innanzitutto in questo senso che nella sua essenza la filosofia può andare più in là della scienza (alla quale, d’altra parte, ormai interessa la potenza e non la “verità”). Resta comunque il fatto che la tesi “parmenidea” della teoria della relatività suona identica alla tesi dei miei scritti che ogni essere è eterno — anche se la fondazione delle due tesi è abissalmente diversa, sì che le tesi stesse sono diverse».
In una postilla sulla necessità che la totalità del “possibile” sia eternamente “reale” e sull’entificazione del nulla nella negazione del destino, il filosofo bresciano ritorna sul progetto tecnico: «Il progetto tecnico di produrre l’“eternità” e l’“immortalità” è ancora una forma immatura di tecnica, incapace cioè di raggiungere il culmine del nichilismo. L’“eternità” e l’“immortalità” che la tecnica riterrà di aver raggiunto saranno infatti, inevitabilmente, categorie della scienza, fondate cioè su ipotesi; saranno contenuti di una fede, e quindi qualcosa di dubbio – il dubbio da cui la fede è inseparabile. Il progetto tecnico di trasformare l’uomo in un Dio non si avvede che l’uomo, ogni uomo, è, in eterno, infinitamente più di ogni Dio».
È questa l’affermazione di tutte le affermazioni: ogni uomo è, in eterno, infinitamente più di ogni Dio. È l’affermazione che stupisce, che scuote, che allarma, ma è l’affermazione di un grande filosofo che non sogna, che (di)mostra, che indica la strada, che fa segno, che (in)segna all’interno di un impianto solido, difficilmente attaccabile, difficilmente smontabile. A un mese dai novant’anni, Severino continua con vivida lucidità a testimoniare il destino. Il 26 febbraio, in quel di Brescia, sarà festa grande. Per lui e, soprattutto, per il suo pensiero, una stabile conoscenza della verità, della assoluta innegabilità del destino della verità.
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