Se la poesia interroga filosofia e teologia
A tredici anni dalle parole di presentazione di Manlio Sgalambro, le poesie di Luca Farruggio non sono mai scritte impunemente. Il dolore, l’inquietudine e il senso di una ricerca infinita avvolgono ogni singolo verso di questa nuova raccolta
Lo avevamo lasciato con Del pessimismo teologico (Il Prato, 2017), un dialogo tra un teologo, un filosofo e un poeta. E ora lo ritroviamo, con L’ultima Parola (BookSprint), proprio nei panni del poeta. Ma quella di Luca Farruggio rimane pur sempre una poesia che interroga sia la filosofia, sia la teologia.
Nelle trenta poesie contenute nel libro, l’autore si sforza di trovare un senso ultimo e profondo al vivere, al cammino dell’uomo. E lo fa quasi sempre interrogandosi nel cuore della notte. Questa resta il tema centrale della silloge, ma ad illuminarla costantemente c’è sempre una insondabile “luce di una candela nella notte”. Luce che è sempre inquieta, come la fede di un credente che non si accontenta di dogmi e di tradizioni accettate senza essere passate attraverso la revisione del libero pensiero, della filosofia.
La prefazione è di Domenico Ciardi, poeta e monaco di Bose. Nel chiamare un poeta cristiano a dare unità al senso delle proprie poesie, Farruggio non a caso cita questa frase di Milan Kundera: «Poeta non è chi scrive versi ma chi – ricordiamoci di questa parola – è eletto a scriverli, e solo un poeta può riconoscere con certezza in un altro poeta questo contatto della grazia».
Non un cieco Destino, ma la Grazia sembra tessere quelle parole che cercano un senso ultimo fino a giungere a quell’ultima parola che tutto potrebbe avvolgere e consolare. Ma come può fiorire tale parola da un essere fragile come l’uomo? Scrive Ciardi: «Luca ci fa intravedere che a noi spetta piuttosto la parola penultima che appartiene alla nostra umanità ferita».
L’ultima parola, invece, sembra toccare sempre a Dio e non spetta agli esseri umani comprendere i misteri divini e la totalità di tutte le parole pronunciate sulla terra. In ciò, forse, troviamo quella responsabilità a cui Sgalambro aveva richiamato l’autore nel 2006, quando gli donò la prefazione di Bugie estatiche (Il Filo): «Un noto pensatore tedesco ha detto che dopo Auschwitz non si possono scrivere poesie. La responsabilità davanti alla stessa poesia ci imporrebbe il divieto. Ma i massacri non hanno mai fermato i poeti. Stendere la bellezza sulle sciagure è parso, anzi, come si sa, uno dei compiti dell’arte […] In ogni caso, mio giovane poeta, le auguro che sia presente in lei quello che abbiamo chiamato “responsabilità”. Non si fa poesia impunemente».
A distanza di tredici anni dalle parole del grande filosofo-poeta di Lentini, possiamo dire che le poesie di un non più giovanissimo Farruggio non sono mai scritte impunemente! Il dolore, l’inquietudine e il senso di una ricerca infinita avvolgono ogni singolo verso della raccolta. E anche quando sembra trionfare il Nulla con il suo matematico buio, la poesia di Farruggio ci ricorda alcune parole che, sempre in Bugie estatiche, Enzo Bianchi (Fondatore della Comunità monastica di Bose) aveva scritto nella postfazione. Cioè che ogni singola parola nasce, muore, e risorge «avviandosi verso spazi di luce mediterranea, chiara, pacificata». Quindi, anche se l’ultima parola non spetta a noi, ci resta comunque il dovere di pensarla, interrogarla e cercarla.
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