Hannah Arendt, menzogna & politica
Le riflessioni sui “Pentagon Papers”, riproposte da Marietti, si mantengono attuali. La filosofa ebrea tedesca, “più machiavelliana di quanto lei stessa avrebbe mai ammesso”, scrisse un saggio incisivo, poiché incisiva fu l’analisi, tra il pericoloso mito dell’onnipotenza e l’inevitabile finzione
Nella Collana Agorà dell’Editore Marietti vi sono alcune gemme preziose che meritano segnalazione, lettura e rilettura. Dei dieci titoli (ri)proposti, mi soffermo per ora su Hannah Arendt, La menzogna in politica. Con testo originale a fronte, curato da Olivia Guaraldo e tradotto da Veronica Santini, il libro fa riferimento a un saggio apparso nel 1972 sulla New York Review of Books, una riflessione acuta sul rapporto tra politica e menzogna, distinguendo tra la menzogna per ragion di Stato e la falsificazione dei fatti per altre ragioni, magari di immagine o di reputazione. Tutto scaturisce dalla pubblicazione, l’anno precedente, sul New York Times, dei Pentagon Papers, documenti che ammettono l’inutilità dell’impegno americano in Vietnam. Quelle carte, tenute segrete, infiammano l’opinione pubblica. Argomenta Arendt: «È senz’altro vero che la politica americana non perseguiva alcun obbiettivo, né buono né cattivo, che ponesse un limite e controllasse la pura fantasia. E la ragione per cui fu concesso di impiegare mezzi eccessivamente costosi, sia in termini di vite umane sia di risorse materiali, per raggiungere degli obbiettivi così irrilevanti politicamente, va ricercata non solo nella sfortunata sovrabbondanza propria di questo paese, ma nella sua incapacità di comprendere come anche un grande potere è un potere limitato. Dietro il cliché costantemente ripetuto della “più grande potenza mondiale” si nascondeva il pericoloso mito dell’onnipotenza».
La curatrice, in una densa prefazione, scrive: «La politica è, secondo la lezione aristotelica che Arendt fa propria in maniera originale, la sfera del contingente, delle cose che possono essere altrimenti. È quindi politico il tentativo di negare l’esistente per far sì che esso possa essere modificato». E aggiunge: «La politica, con buona pace dei platonici e degli hobbesiani di ogni età, non ha nulla a che vedere con i criteri stabili, rigidi e immutabili, con cui governare la realtà, ma essa è il costante tentativo collettivo di elaborare visioni della realtà che siano diverse da quelle esistenti. Politica è, machiavellianamente, l’ambito del cambiamento. L’immaginazione è lo strumento attraverso cui chi agisce “nega l’esistente”, ossia è la facoltà mentale che ci rende in grado di “far posto” nella mente a qualcosa che prima non c’era». Per Arendt, «la deliberata negazione della verità fattuale – la capacità di mentire – e la possibilità di cambiare i fatti – la capacità di agire – sono tra loro connesse; devono la loro esistenza a un’unica risorsa: l’immaginazione».
Continua Guaraldo: «Lungi dal ritenere che la politica debba di necessità essere “onesta”, “vera” e “buona”, Arendt afferma che essa è innanzitutto l’intreccio complesso – irriducibile a un criterio ordinativo comprensivo – di una pluralità di agenti, liberi ciascuno di cominciare qualcosa di nuovo. Ancora una volta, Arendt ci appare più machiavelliana di quanto lei stessa avrebbe mai ammesso: se di bontà o di verità si deve parlare, in ambito politico, queste qualità hanno a che fare non con criteri di natura morale o logica, bensì con un tessuto plurale di volontà, di intenzioni, di desideri che dipende, costitutivamente, da accordi temporanei, da quell’ “agire di concerto” che Arendt ritiene essere l’unica via efficace alla realizzazione di sé. “Non l’uomo, ma gli uomini abitano la terra” afferma la Nostra, intendendo con ciò criticare la fictio filosofica dell’Uno, e quella politica dell’individuo. La verità della politica è dunque la sua pluralità e riguarda il fatto che essa non può essere sottoposta a quella reductio ad unum di cui spesso la filosofia (politicamente) si serve per semplificare le differenze. Ne consegue che la virtù propria della sfera politica concerne l’essenziale rispetto per tale pluralità e contingenza».
Il saggio di Arendt è incisivo poiché è incisiva l’analisi, ma aiuta a considerare i percorsi contradditori e talvolta nefasti della politica, le continue simulazioni e dissimulazioni, il dire e il non dire, il fare e il non fare, il fare una cosa per fare altro. A distanza di tanti anni è un saggio che resta attuale, che mantiene i segni di una grande intelligenza al servizio di un’indagine raffinata, di un’interpretazione lucidissima. Chiude Guaraldo: «La politica, nell’era della globalizzazione, dello scontro di civiltà, anziché produrre finzioni mediatiche e violente della condizione umana, dovrebbe umilmente tentare di ripartire dal dato di fatto innegabile che siamo già da sempre in relazione, veniamo al mondo in relazione, e che la nostra sopravvivenza, ormai, dipende costitutivamente dalla forma politica che a questa relazione vogliamo dare». È un invito a riconsiderare la forma plurale e non singolare, il Noi e non l’Io, il Siamo e non il Sono. Ma la partita è ancora lunga, la menzogna ancora tra noi e coloro che si ritengono singolari e non plurali sempre in agguato, spesso al comando. Cadono e si rialzano, tra la menzogna di ieri e quella di oggi. La menzogna in politica è stortura o necessità? O entrambe?
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