Il Machiavelli di Ciliberto, tra ragione e pazzia
Il libro, edito da Laterza, attraversa una ferita inguaribile, pensa la crisi di Firenze, dell’Italia e dell’Occidente, induce a soffermarsi sul teatro della vita, tra ragione e dissimulazione, s’inoltra nel labirinto della fortuna tra il Segretario fiorentino, Bruno e Spinoza. È un libro alto su un pensatore di prima grandezza, un libro che invita a non rassegnarsi all’esistente
Se ti sei formato nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Firenze, se ti sei laureato con Eugenio Garin (correlatore Paolo Rossi) nel 1968 con una tesi sulla fortuna di Machiavelli, al Segretario fiorentino ritorni, cinquant’anni dopo, per delinearne la figura di uomo, di pensatore e di filosofo, per riannodare il filo di un pensiero mai finito, poiché, «al fondo, i problemi fondamentali dell’uomo hanno mutato forma, ma sono stati sempre gli stessi; e questo vuol dire che i problemi del Segretario sono ancora oggi, in altra maniera, anche i nostri, e tali resteranno finché la “politica” – la potenza della politica – continuerà ad avere, come ha avuto nella tradizione occidentale – dai greci fino al XX secolo –, un ruolo centrale nell’esistenza umana. Quando questo nesso si spezzerà – e può accadere, anzi forse sta accadendo – solo allora anche Machiavelli si allontanerà da noi. Ma vorrà dire che è nato un altro mondo, differente dal nostro. Come dice un filosofo che l’ha conosciuto e rispettato: “il tempo tutto toglie e tutto dà”».
Il nostro tempo, tra mille sventure, per ora ci dà il nuovo libro di Michele Ciliberto, Niccolò Machiavelli. Ragione e pazzia, edito da Laterza. Anche se, tra i cinquecento anni dalla stesura del Principe (1513) e i cinquecento anni dalla morte (1527), i libri su Machiavelli fioriscono e fioriranno come limoni, il lavoro del presidente dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, tra i massimi studiosi di Giordano Bruno, si pone in alto, tra le alte sfere, si nutre delle interpretazioni che l’hanno prececeduto, da Chabod a Sasso, da Procacci a Ferroni, da Pocock a Skinner, da Martelli a Bausi, da Dionisotti a Bertelli, da Vivanti a Inglese, da Cambaino a Cacciari, fino a Esposito, per dire che il Segretario è di tutti e di nessuno, miniera inesauribile di ragioni e di pazzie, di intuizioni e di svolte quasi mai colte da chi avrebbe dovuto coglierle, lascito eterno per chi fa della politica motivo d’analisi e di vita, per chi la studia e per chi la esercita, per chi la osserva con lo sguardo freddo e distaccato, pauroso di sporcarsi le mani, e per chi le mani se le sporca, spesso lasciandoci mani e corpo.
Scrive Ciliberto: «Machiavelli è stato un pensatore di prima grandezza, e anche un notevole filosofo – naturalmente nelle forme e nei modi propri dell’età cui appartiene: e questo solo una concezione dottrinaria della filosofia, imperniata sul canone ‘moderno’, potrebbe negarlo. Il centro del suo discorso è però sempre di carattere politico: per lui, possono valere le parole di Rousseau nelle Confessioni, quando dice di “aver scoperto che tutto si legava intimamente alla politica”. Ma la sua meditazione, proprio come quella di Rousseau, investe i problemi generali della condizione umana, analizzata in modo astratto ma in chiave storica e alla luce di un tempo, di un’epoca specifica – caratterizzata, a sua volta, da una crisi radicale dello “stato del mondo”, e perciò in grado di rivelare, proprio per questo, in modo più profondo, caratteri, destino e limiti dell’uomo».
L’autore compie una scelta consapevole, maggior rilievo all’uomo rispetto all’opera, e teme che possa essere un difetto del libro. Non lo è affatto. Del resto, com’è possibile immaginare l’opera di Machiavelli senza eccedere nello scandaglio dell’uomo? Continua Ciliberto: «È dalla riflessione di tipo antropologico che scaturisce la sua concezione della politica, ed è in questa prospettiva che vanno decifrati i suoi testi politici, storici, poetici, teatrali. In Machiavelli ci sono analisi politiche di eccezionale lucidità, giudizi storici acutissimi, invenzioni teatrali straordinarie; non c’è però una specifica, e sistematica, riflessione sulla questione dell’essenza della categoria del politico o sul problema della distinzione tra etica e politica, intorno alla quale sono scorsi fiumi d’inchiostro. È anche in questo un uomo del Rinascimento. Machiavelli non è Bodin (come osserva Gramsci), né tantomeno Hobbes. Si muove su onde diverse: si potrebbe perfino dire – decifrandolo in termini ‘moderni’ – che non è propriamente un ‘filosofo della politica’. Il che non vuol dire che non affronti problemi politicamente decisivi muovendo dalla sua concezione della condizione umana, e non solo nei Discorsi o nel Principe, ma anche nelle Istorie fiorentine in cui sono poste questioni di grande rilevanza».
Sul titolo del libro, «scritto con la tecnica della variazione di un gruppo di cellule originarie – immesse in larga parte nel primo capitolo e riprese, una per una nei successivi – che, pur nel variare, restano sempre le stesse, senza pretendere di esaurire tutto lo spartito dell’opera di Machiavelli», occorre una precisazione. Perché ragione e pazzia? Spiega Ciliberto: «Machiavelli è stato in genere interpretato come teorico della ragione politica, e in effetti è straordinaria la capacità con cui analizza le situazioni, i rapporti di forza, le alternative in capo individuando la migliore soluzione possibile. Ma non è solo questo: è anche un visionario, capace di sporgersi oltre le barriere dei canoni correnti, di vedere al di là delle situazioni di fatto, di proporre soluzioni ‘eccessive’, straordinarie: appunto, “pazze”. Non per nulla Filippo Casavecchia gli attribuisce capacità profetiche, che del resto Machiavelli si riconosce – in modo laico, però, senza alcuna inflessione di tipo religioso: come capacità non comune di prevedere cosa sarebbe, infine, accaduto».
Quella capacità che vorremmo possedere oggi, persi come siamo tra crisi e decadenza, in un mondo che muta radicalmente e ripetutamente, dove «perdono peso e significato i valori che la cultura europea ha elaborato anche a prezzo di sangue, roghi, persecuzioni: quei valori che costituiscono la dignità, e l’onore, dell’Europa – a cominciare dalla tolleranza, dalla libertà di pensiero, dalla religione civile, dallo stesso concetto di ‘natura’ elaborato lungo alcuni secoli, che oggi appare in dissoluzione con riflessi sconvolgenti sull’idea stessa della vita e della morte, e nella nostra stessa esperienza ordinaria, quotidiana».
Chiude Ciliberto: «Un mondo intero si sta disgregando, come ai tempi di Machiavelli e Guicciardini, e neppure noi sappiamo dove andiamo. Ma questo non significa che si debba accettare ciò che accade o rassegnarsi all’esistente. La grandezza di Machiavelli, quella per cui continua a parlare a chi legge le sue pagine, è nell’ostinazione con cui non volle mai rassegnarsi, in quel suo continuo “correre” che è il sigillo della sua personalità e della sua esistenza – insomma nella lotta che fece per cercare di far nascere un nuovo mondo, assumendo come punto di vista privilegiato quello per cui si sentiva nato: l’arte della politica da mettere al servizio dello Stato, della Repubblica, qualunque ne fosse il “reggimento”, perché lo Stato resta e i vari “reggitori” passano».
Non passano, anzi restano, come lo Stato, le opere. Quelle di Machiavelli e quelle dei suoi interpreti più efficaci e più veri, Ciliberto tra questi. Dopo aver appena curato l’Introduzione a Niccolò Machiavelli. Tutte le Opere, nell’edizione Bompiani, ora pone il sigillo della sua personalità di studioso e della sua esistenza con un libro che attraversa una ferita inguaribile, che pensa la crisi di Firenze, dell’Italia e dell’Occidente, che induce a soffermarsi sul teatro della vita, tra ragione, dissimulazione e pazzia, che s’inoltra nel labirinto della fortuna tra Machiavelli, Bruno e Spinoza. Fino a oggi Ciliberto era considerato uno dei massimi studiosi del filosofo nolano. Da oggi lo è anche del Segretario fiorentino.
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