Massimo Cacciari, Umanesimo grande e inquieto
Il nuovo libro del filosofo veneziano, lettura originale di un periodo storico complesso, sta anche nell’iconografia che non correda soltanto il testo ma lo completa e arricchisce di una luce suggestiva e originale. Arte e filosofia, arte filosofica, pensiero e linguaggio, filologia e filosofia che s’intrecciano inestricabilmente
Bramante, Eraclito e Democrito, affresco, 1487. Milano, Pinacoteca di Brera, già a Palazzo Panigarola, sala dei Baroni: «Comico è ciò che pretende a una sostanzialità che non gli compete, e che nel suo stesso esprimersi distrugge la propria pretesa. L’ironia, di cui l’Umanesimo è sempre capace, si abbatte su questo carattere proprio della figura o della situazione comica. Riuscendo a volte a esplodere in un riso liberatore. Il Momus ne è sommo esempio. Ma qui il filosofo-che-ride per eccellenza, Democrito, è, a sua volta, oggetto di riso, pur distinguendosi con nettezza dagli altri personaggi dell’in philosophos! albertiano, piú o meno tutti caratterizzati dalla massima delle follie: volere che l’universo sia fatto a misura della propria stultitia. Democrito appare interamente dedito a ricerche naturalistiche, all’apparenza insensate (come vivisezionare un granchio), ma che pure testimoniano della sua consapevolezza dei limiti dell’intelletto umano. Insano, tuttavia, anche lui, poiché dimentica o non intende prendersi cura della realtà che lo circonda…».
Il nuovo libro di Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, edito da Einaudi, riedizione ampliata e più accurata dell’Introduzione all’antologia curata da Raphael Ebgi, Umanisti italiani, sta anche nell’iconografia che non correda soltanto il testo ma lo completa e arricchisce di una luce suggestiva e originale. Sarebbe stato arduo comprendere l’Umanesimo come lo racconta Cacciari senza l’ausilio di immagini significative. Dante e Beatrice in volo verso il cielo del Sole, Francesco, Ottava sfera (Cielo delle Stelle Fisse), Distribuzione dei beni ai fedeli e morte di Anania, e altre ancora, poiché questo è un libro dove arte e filosofia diventano arte filosofica e filosofia dell’arte, dove pensiero e linguaggio, filologia e filosofia si intrecciano inevitabilmente.
Dopo aver reso merito all’intelligenza di Eugenio Garin, «colui che ha più a fondo compreso la drammaticità dell’età dell’Umanesimo, nella dissonanza, anche, dei linguaggi che lo compongono. Credo che, a questo proposito, la sua raccolta di saggi più significativa sia Rinascite e rivoluzioni, Roma-Bari 1976. Su Garin cfr. il saggio di Michele Ciliberto, Una meditazione sulla condizione umana, che introduce la raccolta gariniana da lui curata, Interpretazioni del Rinascimento, 2 voll., Roma 2009», Cacciari scrive: «L’appello alla renovatio, che è impossibile non ascoltare in tutti gli autori dell’Umanesimo, appello che combina in sé, previlegiando ora l’uno ora l’altro, i timbri del rinnovamento spirituale, della riforma politico-civile, di quella religiosa, si connette indistricabilmente con il problema del linguaggio. Gli studia humanitatis assumono un valore del tutto nuovo. Grammatica e retorica non servono semplicemente a conferire al discorso il conveniente decus e quella venustas che è indispensabile anche per persuadere (suavitas-suadeo). La stessa idea di renovatio deve trasfondersi nell’energia comunicativa della lingua, in parole che sappiano esprimerla da se stesse; l’anelito alla rinascita dovrà potersi cogliere incarnato nel verbum. E rinascita significa non tanto far risorgere un passato (che mai, appunto, viene sentito o studiato come tale), ma risvegliare il presente. È questo tempo che occorre destare a nuova vita anche attraverso la re-novatio dell’Antico; a questo tempo, al suo dramma, alle sue attese, è necessario dare parola, e una parola potente quanto quella che ancora risuona negli auctores classici. L’Umanesimo è epoca di crisi, passaggio d’epoca, segnata da catastrofici avvenimenti, un tempo in cui la follia stessa è avvertita come sempre in agguato, follia che andrà conosciuta e rappresentata per poterla combattere, e cioè ironizzata, in tutti i significati del termine ‘ironia’, inesorabile combinazione di riso e pianto, di Democrito ed Eraclito. È perciò necessario armarsi di un logos capace di comprehendere in sé questo mondo, se non si vuole finirne sopraffatti (l’immagine della eversio della grandezza di Roma e della miseria dell’età presente assume, a volte, nel primo Umanesimo, a partire da Petrarca, una tonalità quasi disperata – e non mi sembra affatto trattarsi di un mero topos letterario). Da dove attingere l’energia per plasmarlo? Da dove se non da chi ha dimostrato nel concreto della propria opera che il linguaggio, ratio e oratio insieme, può adempiere un tale compito?».
L’interpretazione di Cacciari, dell’intero Umanesimo, poggia sulla drammaticità, sullo sfondo tragico, una lettura diversa da quella abituale legata all’esaltazione dell’armonia, del bello, delle forme compiute. Leggere i passi su Petrarca, Boccaccio e Dante, leggere il capitolo che ha per titolo La Pace impossibile serve a restituire chiarezza e lucentezza a un periodo storico altamente complesso, che non smette di insegnare, che va ri-studiato, ri-compreso per meglio affrontare il presente e ciò che ci si prospetta davanti. Continua il filosofo veneziano: «Davvero del tutto estranea, questa corrente dell’Umanesimo, alla tonalità fondamentale che in esso assume il neoplatonismo? Forse, per riprendere la felice immagine di Warburg, nessun ‘arazzo’ come quest’epoca è composto da più fili e di più diversi colori e materie. Mai come intorno a questo problema è necessario tenerlo a mente. Anzitutto, occorre cogliere la drammatica da cui lo stesso neoplatonismo è tutto pervaso, tanto al proprio interno, quanto per l’inevitabile confronto con l’aristotelismo, da un lato, e la teologia cristiana, dall’altro. E poi leggere ‘in controluce’ quel testo, conclusivo di un’epoca in tutti i sensi, l’Oratio del conte di Concordia, inseparabile dalle Conclusiones nongentae, nient’affatto esibizione di erudita e giovanile arroganza, testimone, piuttosto, di una provocazione riformatrice di straordinaria energia. Tradizioni e auctoritates su cui il pensiero filosofico e teologico sembrava fondarsi vengono qui affrontate ‘alla pari’, ridiscusse, comparate, con eccezionale ‘arte combinatoria’ e libertà di movimento, e tuttavia vi permane vivissimo lo scrupolo filologico e ancora più vive la vis indagatrice, interpretante, l’inquietudine di quell’autentica skepsis, che resta momento fondamentale di ogni pensare. Ciò che più conta è però comprendere come nell’Oratio si esprima il tentativo, di grande mole davvero, di combinare l’immagine neoplatonica dell’uomo, depurata da ogni verbosa laudatio, con quelle stesse problematiche che nell’Alberti si erano tragice delineate».
La mente inquieta, l’uomo inquieto, la formazione inquieta, la creazione inquieta, la vita inquieta, il procedere inquieto, tutto inquieto. Chiude Cacciari: «Miracolo l’uomo perché di questo è capace. Come però anche del suo opposto. L’uomo può pervenire alla potenza dell’arte cabalistica, come all’impotenza del bruto. Entrambe le possibilità permangono; anzi, tutti i tre fondamentali Possibili: feritas, humanitas, divinitas, insistono nel profondo del suo ‘seme’. Nessuna Cabala può cancellare la loro realtà. La libertà con cui creiamo, o sembriamo creare, che tutto imita e che nessun essente sa imitare, che ogni maschera o persona sa assumere, non potrà mai liberarsi dalla complexio di quella origine. Essere-possibile significa non potersi mai definire, fissare in un solo aspetto, e dunque neppure in quello che la Cabala ci rivela realizzabile. Nella stessa tensione retorica che pervade l’Oratio si agita l’anelito a oltrepassarsi, a conquistare una ‘misura’ che ci assicuri fuori dal pericolo di smarrirci nel pessimo, magari dopo aver capito il bene. Tuttavia, una è la loro scienza – Platone docet, e a modo suo, tragice, Machiavelli conferma. Ed è vera anthropine sophia, poiché appartiene all’uomo soltanto farsi pessimo, così come, all’opposto, tendere a maritarsi all’immortale energeia che nel cosmo si esprime. Ma credere di poter prendere dimora stabile in quest’ultima dimensione significherebbe negare l’indissolubile vincolo che sussiste tra libertà e possibile. Cabala si fa, allora, ricerca ininterrotta, e la magia alla quale con essa si perviene va riacquistata di continuo. Il timbro della decisione, e dell’insecuritas che a questa necessariamente si accompagna, prevale su ogni certezza e si avverte al fondo della più solida dottrina. Altro che peana a un’incondizionata libertà, altro che antropocentrismo autoreferenziale, come tanta filosofia va ancora ripetendo!».
È la stoccata finale di Cacciari che, nella nota d’esordio, sistema anche l’italian theory, confidando che questo libro «valga a mostrare come il pensiero italiano e la sua straordinaria vicenda siano qualcosa di assai meno ‘moderno’ e di infinitamente più profondo e complesso di quella italian theory che oggi circola per i mercati». Può bastare?
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