Giampiero Mughini, lo strano caso di Interlandi
Dopo trent’anni torna in libreria “A via della Mercede c’era un razzista”. Torna per dirci di quegli anni e degli anni che sono venuti, dei nostri anni, del nostro essere italiani, dei fascisti e degli antifascisti che siamo stati e di alcune panzane
Chi lesse, nel lontano 1991, A via della Mercede c’era un razzista. Lo strano caso di Telesio Interlandi, edito da Rizzoli, comprese che sul giornalista Mughini si stava ergendo e imponendo lo scrittore, lo scrittore dotato di una scrittura saporosa e ritmica, capace di passare dall’articolo al libro toccando tutte le corde, muovendo tutti i sentimenti di tonalità diverse, suonando con un tempo ora adagio ora andante, ora piano ora allegro, ora presto ora pianissimo, di attraversare il saggio con la fantasia del romanziere, di garantire al romanzo la disciplina del saggista. La scrittura di Mughini è come la vita del protagonista del libro (oggi riproposto da Marsilio con una nuova prefazione che avrebbe illuminato gli occhi di Cesare De Michelis), è come la vita di ognuno, dove si alternano colori e forme, alti e bassi, e non sai dire, non puoi dire, dove sia la verità, perché ha tante facce, la verità, non è dell’uomo e di questo mondo, la verità; ma esiste la bravura, l’intelligenza di saper distinguere, di saper accogliere il bianco e il nero per esaltarne le giuste sfumature di mezzo, le tinte che non illudono e non tradiscono, di rifiutare il settarismo, di mettersi in contatto con le storie che meritano, tutte, di essere raccontate. Come quella di Telesio Interlandi. È questa, soltanto questa, la verità. E scusate se è poco.
Avrebbe dovuto raccontarla Leonardo Sciascia, al quale il libro è dedicato, ma il Maestro di Racalmuto morì e il figlio dell’intellettuale fascista, Cesare, chiese a Mughini: «Perché non lo scrive lei il libro su mio padre che Sciascia non potrà mai più scrivere?». Precisa l’autore: «Non ricordo se aspettai un minuto o due prima di rispondere. Sì, lo volevo scrivere. Sì, ci avrei provato e seppure sapessi vagamente che Sciascia, negli ultimi mesi della sua agonia, aveva come legato il compito di scrivere il libro su Interlandi a un suo amico, il magistrato catanese Enzo Vitale. Era giusto che mi mettessi in competizione con lui? In realtà Sciascia aveva legato poco e niente. Una cartellina dov’erano le lettere scambiate tra lui e l’architetto Interlandi, probabilmente il libro longanesiano, forse qualche appunto che lo scrittore siciliano aveva preso nel tempo. Il lavoro era tutto da fare». E Mughini lo fece e il libro uscì e oggi riesce per dirci non solo di Telesio Interlandi, ma di quegli anni e degli anni che sono venuti, dei nostri anni, del nostro essere italiani, dei fascisti e degli antifascisti che siamo stati e di una panzana: del ritenere che ci fosse una frattura profonda, netta, che spaccasse in due l’Italia abitata dalle due parti; e di un’altra panzana, «ossia che non ci fosse nulla di vivo nella cultura italiana del tempo del fascismo, che la dittatura avesse come paralizzato l’intera società sino a impedirne qualsiasi manifestazione creativa».
Continua Mughini: «Non c’era stata una cultura viva e pulsante nell’Italia pur ammorbata dalla dittatura? Ma come si può sostenere una tale panzana? E a parte i futuristi e la fiumana delle loro pubblicazioni autoedite, delle loro riviste, delle loro mostre e relativi bellissimi cataloghi; e a parte l’architettura razionalista che produce i capolavori del Pagano fascista, la Casa del Fascio (oggi patrimonio dell’Unesco) del Giuseppe Terragni fratello del podestà fascista di Como, la romana Sala delle Armi di Luigi Moretti e tutto quello che la circonda nel cosiddetto Foro Mussolini. Sono gli anni in cui Curzio Malaparte si inventa una rivista dopo l’altra. È il gennaio 1933, anno XI dell’era fascista, quando a Milano esce il primo numero del “Campo Grafico” di Attilio Rossi e Carlo Dradi, forse la più bella rivista europea dedicata nel Novecento al fare tipografico moderno e alla sua rivoluzione. In quello stesso 1933 debutta “Quadrante”, il mensile diretto da Bardi e Bontempelli, la cui redazione è nella romana via Frattina, e di cui sarà spettacolare il numero 35 (ottobre 1936) interamente dedicato all’apologia della Casa del Fascio».
Telesio Interlandi fu fondatore e direttore del Tevere, fu direttore della rivista La difesa della razza, pubblicata tra il 1938 e il 1943 per sostenere e promuovere le leggi razziali. Mughini ha cercato di comprare tanti libri e riviste che attengono a quegli anni, ma La difesa della razza no: «Mai ho provato a comprarne un numero. Quella schifezza sugli scaffali della mia biblioteca non ce la voglio». Eppure, non è bastato per evitargli il mirino degli antifascisti di professione e di rendita, di chi gli ha rimproverato per anni di non aver tenuto abbastanza dritto il timone dell’antifascismo e dell’antirazzismo. Continua Mughini: «Beninteso, libero ognuno di dire la sua, e seppure quei rimproveri non mi persuadessero. Non mi persuadeva l’invito a fare quel che non ho mai fatto nella mia vita, l’Avvocato delle Cause Vinte, ossia l’insistere oltremodo e a voce tuonante su quel che è talmente ovvio e scontato, ad esempio quella gran fetenzia dell’antisemitismo delle leggi razziali del 1938 e dintorni. Anche se lo so che a fare l’Avvocato delle Cause Vinte ti trascina dietro un grande pubblico osannante, un pubblico cui appaiono sublimi le affermazioni degne della terza elementare. Il fascismo era una ignobile dittatura. La mafia fa veramente schifo. È molto meglio essere onesti che corrotti. Sono delle ovvietà a leggere le quali di solito mi appisolo».
Non ci si appisola, anzi si resta ben svegli, a rileggere A via della Mercede. Dal suono «al cancello del villino di Telesio Interlandi, a via Santa Melania 20, lassù all’Aventino, quando l’alba del 26 luglio 1943 aveva ancora da iniziare il suo stento», fino al 20 gennaio 1965 quando «Telesio Interlandi è morto nel sonno. Sofferente da tempo di insufficienze cardiache, quella mattina s’era alzato per poi tornare a letto. Dove aveva chiuso gli occhi per sempre», il libro racconta la speciale e tremebonda avventura di un uomo e di un Paese, dell’epoca in camicia nera, della Sicilia che ha visto nascere entrambi, il protagonista e l’autore, senza dimenticare il sicilianissimo Sciascia che avrebbe dovuto scriverne, ma la Sicilia di Interlandi era Chiaramonte Gulfi, «la Sicilia più fonda, più aspra, più povera; la Sicilia più Sicilia di tutte. Sfiancata dal vento freddo di montagna che viene da levante, ancora negli anni venti era priva di un sistema fognario e dell’energia elettrica. Le case vi erano illuminate a petrolio; ben quattro chilometri separavano l’abitato dalla strada ferrata. Quando lo scrittore siciliano Enzo Consolo s’è dato, nel luglio 1990, a stendere per la terza pagina del Corriere della Sera un elzeviro dove sosteneva che la faccia di Totò Schillaci, il prodigioso centravanti siciliano del Mundial ’90, era una faccia da siciliani poveri e disperati quali non ne esistono più, gli è venuto di scrivere che quelle facce, tagliate e drammatiche, non si vedono più neppure a Chiaramonte Gulfi, come a dire che non si vedono più neppure nella Sicilia per antonomasia». Non è meraviglioso?
Ma da quella cittadina di 14.000 abitanti, che si inerpica a 600 metri sul livello del mare, il giovane Interlandi arriva a Roma alla fine degli anni dieci, si ritrova a Firenze dove, per La Nazione, scrive della Marcia su Roma, torna nella Capitale, entra a far parte della squadra dell’Impero, si ritrova davanti al Duce che gli dice: «Ah, lei è Interlandi. Ma lo sa che io leggo i suoi articoli ogni mattina?». Il resto è dentro via della Mercede e ve ne lascio il racconto e il piacere, il piacere del racconto di uno scrittore che, dopo il 1991, ha ingaggiato una gara con sé stesso per sfornare un libro più avvincente dell’altro. Oggi scrive che di questo libro, avendolo riletto per la prima volta dopo trent’anni, va fiero, «pagina per pagina, riga per riga. Virgole comprese». Mughini, prima delle due pagine di congedo, racconta il funerale di Interlandi. È un passo notevole, dove la cronaca diventa storia e l’eleganza dello scrittore ne rivela l’altezza. Andrebbe segnalato a uno dei tanti corsi di scrittura, se la scrittura (Dio, la scrittura!) si potesse insegnare. Eccolo: «I funerali si svolgono l’indomani, nella chiesa di Santa Maria a piazza del Popolo, la piazza raffigurata da Orfeo Tamburi in un olio regalato a Interlandi, un piccolo quadro sopravvissuto agli scempi di via Santa Melania. Alla fine della messa il corteo funebre imbocca la strada in pendenza dal lato di piazzale Flaminio, dinanzi alla caserma, che porta verso il lungofiume. Dietro il feretro è l’auto con Interlandi figlio, il quale intravede all’imbocco della strada una figura di uomo tra i cinquanta e sessanta, la figura eretta, che sta aspettando in piedi. Quando il feretro passa, l’uomo fa un gesto di saluto con la mano e pronuncia a voce alta: “Addio, Interlandi”. Era costui uno di quelli che avevano creduto nel fascismo duro e puro, il fascismo sognato per vent’anni dal direttore del “Tevere”? O forse uno di quelli che aveva temuto che gli ebrei minacciassero l’identità del nostro Paese, e aveva perciò applaudito la loro discriminazione al tempo dell’odio? O forse uno di quelli che era stato ridotto al silenzio dalla sconfitta della parte fascista che era stata la sua, e che di quel silenzio non si dava pace? Noi non lo sappiamo». Già, non lo sappiamo. Ma sappiamo che la storia dev’essere raccontata: «Il racconto di un uomo reale in mezzo ad altri uomini reali del suo tempo sciagurato. Non un mostro da maledire ogni volta che se ne pronuncia il nome». Dopotutto, chi siamo noi per maledire?
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