Filosofeggiando con… MARCELLO VENEZIANI
“Gli dei non se ne sono mai andati, ma li abbiamo costretti in uno scantinato. L’idea di progresso è in rovina da tempo, superata dalla realtà e dalla complessità del mondo. Eterno non è il fascismo, come dice Eco, ma la faziosità. Anzi, più passa il tempo e più si oscura la capacità di vedere la realtà senza paraocchi, di valutare con spirito critico e amor di verità luci e ombre della storia. All’Italia mancano Gentile e Prezzolini. Ecco cosa penso di Almirante e Fini”
Quarta ristampa per Nostalgia degli dei. Sono tornati o non se ne sono mai andati?
Non se ne sono mai andati, siamo piuttosto andati noi a vivere in uno scantinato. Come diceva Pessoa, non sono morti ma è finita la nostra facoltà di vederli. E come accade anche ai miti, gli dei cacciati dalla porta sono rientrati dalla finestra, in forma di idoli, dei momentanei, surrogati, malattie (come suggerivano Jung e Hillman).
Civiltà, Patria, Famiglia, Comunità, Tradizione, Mito, Destino, Anima, Dio e Ritorno. Di quali delle dieci idee avremmo maggior bisogno?
Amo pensare che gli dei siano un’inscindibile poligonia, la loro forza è nella loro organica interconnessione, direi quasi la loro imprescindibile coralità. Ogni dio evocato in Nostalgia degli dei, evoca gli altri, e ogni dio trova coronamento, compensazione e perfino limitazione nell'altro dio. Pericoloso è amare uno solo di essi e ad esso sacrificare gli altri. Nasce il fanatismo, a volte il dispotismo che è sempre il frutto di una monocrazia e di un monoteismo.
Perché a scrivere di questi temi si viene accusati di voler tornare indietro, di voler ristabilire un qualche ordine che non avrebbe più ragion d’essere?
Perché non sappiamo uscire dallo schemino lineare-orizzontale che conosce solo l’andare avanti o indietro e non conosce il sopra e il sotto, il fianco e l’interiorità, il cerchio, la spirale e la sfera… Eppure l’idea di progresso è in rovina da tempo, superata dalla realtà e dalla complessità del mondo. In ogni caso la Nostalgia a cui mi riferisco non è il tempo passato, ma l’Inizio, l’Origine, la Luce. Non si tratta di retrocedere, semmai di procedere approfondendo e magari alzando lo sguardo.
Da ragazzino, con suo padre che cita la celebre massima di Kant, scopre la filosofia. Sono più i problemi che risolve o quelli che solleva?
La filosofia ricerca, non colleziona trofei e nemmeno sconfitte, apre scenari non si crogiola nei dubbi, che come spiegavano i kantiani per essere fecondi devono essere metodici e non sistematici. La filosofia non risolve il mistero dell’essere e nemmeno la questione cruciale della nostra vita; semmai predispone, conosce il terreno e stabilisce le priorità. Poi deve intervenire qualcos'altro per concludere: la visione, l’intuizione, l’iniziazione, l’abbandono, la fede.
Scrive libri e scrive per i giornali. Dove finiranno i primi e dove sono finiti i secondi?
Mi illudo di pensare che ci sia un paradiso dei libri dove vanno i migliori. E nell'illusione mi illudo che qualcuno dei miei possa varcare la soglia beata. Gli articoli dei giornali invece sono nella migliore delle ipotesi glorie effimere e spunti che possono poi essere ripresi e salvati dai loro Fratelli Maggiori, i suddetti Libri. E se pure questa metafisica del libro fosse un’illusione mi sembra preferibile alle ceneri e al nulla. In ogni caso, l’ideale di un libro non è la sopravvivenza dell’autore tramite l’opera, semmai il contrario; basterebbe pensare che un libro beato sia solo una frase dentro il Libro Universale e Perenne in cui sono riposte le chiavi dell’Universo. Borges sia con noi...
Ha fondato anche diversi giornali e riviste ed è stato persino membro del Consiglio d’Amministrazione della Rai. Avventure o disavventure?
Le prime avventure, e anche esaltanti, il secondo no, un incidente di percorso, non richiesto, non voluto, accolto dapprima con la convinzione di poter incidere poi ti accorgi che si vanifica tutto, non puoi cambiare quasi nulla, hai un ritorno di notorietà solo infame perché rientri nella categoria dei potenti, dei privilegiati. I giornali no, hanno lasciato una buona scia; dopo venti, trent'anni, mi ritrovo quasi a ogni mia conferenza un nostalgico di quelle testate e di quel clima, che mi dice che conserva la collezione e che spera ancora in una ripresa delle pubblicazioni.
La politica, invece, dov'è finita?
A voler essere ottimisti, il miracolo è che non sia ancora finita, che sopravviva ancora, anche se è di breve vista e di corto respiro, fugace, superficiale, occasionale. Ma dev'essere duro sopravvivere nell'epoca della Tecnica e dell’Economia Globale, ma anche del Pensiero Smorto e delle Comunità in declino. La politica è nel mezzo, schiacciata tra l'egemonia dei primi e la decadenza dei secondi.
Eppure Machiavelli, dopo cinquecento anni, è ancora tra noi.
Si, è ancora vivo. Le categorie della politica, l’arte del governare, il rapporto tra potere e sudditi, ruotano ancora intorno alle sue intuizioni, anche se sono cambiati gli scenari, le sovranità e i poteri. Machiavelli ha descritto il suo tempo, avendo come paradigma il mondo classico; ma anche per questo le sue riflessioni sembrano allusive anche al presente, perché in realtà colgono le invarianze della natura umana e le ciclicità della storia.
Perché non ha mai accettato di candidarsi?
Perché reputo che la politica non sia il mio mestiere, benché abbia una spiccata passione civile. E reputo impossibile sopravvivere al suo clima e incidere sulla realtà. Ognuno deve essere cosciente delle proprie qualità e dei propri limiti. Del resto, i “filosofi” in politica difficilmente sono stati d’aiuto alla politica e alla stessa filosofia...
La destra che ha sempre sognato continuerà a sognarla o ha la possibilità di realizzarsi?
La destra come targa, come icona, mi interessa assai poco e sono pronto a lasciarla nel novecento con la sua perfida sorellastra, la sinistra. Ma i contenuti che di solito vengono associati a una visione politica e culturale “di destra” sono condivisi da un’area consistente di opinione, raccolgono un vero consenso popolare e restano comunque punti di riferimento essenziali per la politica. Dico la tradizione, il senso del confine, la sovranità, l’importanza delle identità, la meritocrazia e la necessità di un’osmosi tra popoli e aristocrazie.
Lei è del 1955 e il fascismo ha potuto soltanto studiarlo. Le sarebbe piaciuto farne parte?
Forse si, ma non so se il mio spirito critico, la mia indole da bastian contrario, mi avrebbe portato anche in quel caso a darmi alla fronda, all'opposizione. Mi trovo meglio a sentirmi dare del fascista in pieno antifascismo piuttosto che immaginarmi fascista col fascismo regnante. In realtà mi piacerebbe aver vissuto in più epoche, e il fascismo è tra queste. Ma per amor di conoscenza, curiosità di storia, e non aderenza a questo o a quel periodo.
Perché è ritenuto ancora scandaloso dire che Mussolini ha fatto anche cose buone?
Perché eterno non è il fascismo, come dice Eco, ma la faziosità. Anzi, più passa il tempo e più si oscura la capacità di vedere la realtà senza paraocchi, di valutare con spirito critico e amor di verità luci e ombre della storia. Quando si dice che non ci sono lati positivi nel fascismo si esce dalla realtà, dalla verità e dalla storia, e si entra nella caccia alle streghe, nella demonizzazione, nell'accecamento. Sono quegli atteggiamenti acritici a legittimare poi le apologie acritiche del fascismo.
Chi è Giorgio Almirante?
Il più grande oratore della repubblica italiana, il paroliere di una politica come testimonianza ideale e il leader che seppe coltivare l’amor patrio anche quando era infame e proibito sventolare il tricolore. Non fu uno stratega politico, non ebbe una gran cultura politica, semmai letteraria; non riuscirei a immaginarlo a governare.
E Gianfranco Fini?
Un grande speaker televisivo, con grandi capacità comiziali e un repertorio di formule, slogan e parole-chiave ma con nessuna visione politica, nessuna cultura politica, nessuna capacità di strategia e nessuna vera passione ideale. E mi fermo qui.
In Imperdonabili. Cento ritratti di maestri sconvenienti ha diviso i capitoli in giganti, idee che mossero il secolo, intelligenze pericolose, spiriti inquieti, sismografi di un’epoca, maestri veri e controversi, penne che lasciano il segno, presenze oniriche e assenze profetiche. Mi sceglie un maestro per ogni settore?
No, anche in questo caso, non riesco a fare selezioni e a sceglierne solo uno; sono come Filomena Marturano che non dirà mai quale tra i suoi figli sia quello “legittimo”… Anzi, ho il rammarico di aver escluso altri autori a mio parere fondamentali da quella pura ampia galleria. Posso dire che tra quei cento ce ne sono anche alcuni che non amo, o con cui sono in dissenso, ma che reputo nondimeno importanti per affrontare un viaggio tra gli autori.
Ha scritto che abbiamo tutto, meno il senso della vita. Come recuperarlo?
Occorre riaprire i ponti col passato, col futuro, con l’interiorità, con la trascendenza. Occorre proiettarsi oltre sé stessi, vivere non basta, l’io non basta, l’oggi non basta. Occorre dedicare la vita e non solo viverla appieno. Occorre confrontare la nostra vita caduca con gli intramontabili. Occorre vivere non a caso, ma secondo il destino…
Qualche anno fa scrisse una lettera agli italiani. Ma ha capito chi sono?
Flaiano direbbe che sono una collezione di esemplari unici, irripetibili. Troppa grazia, gli italiani si possono conoscere per sottrazione, per negazione, per lontananza. Li conosci meglio in loro assenza, in confronto con altri, mediante la loro esterofilia, la sindrome dell’erba del vicino, infine attraverso la ricca catalogazione dei loro difetti. Ma alla fine gli italiani sono ancora un popolo interessante, con una spiccata nazionalità anche se si vergognano di dichiararla, ma non di esibirla.
All'Italia manca più Giovanni Gentile o Giuseppe Prezzolini?
È necessario qualcuno che dica agli italiani come realmente sono e qualche altro che dica loro come invece dovrebbero essere. Per assolvere al primo compito manca il realismo di Prezzolini; per assolvere al secondo compito manca l’idealismo pedagogico di Gentile. Prezzolini ha visto come pochi l’Italia qual è, Gentile ha pensato come pochissimi come dovrebbe essere. Manca la vista dell’uno e la visione dell’altro.
Più Seneca o Leopardi?
Di ambedue abbiamo preso solo la buccia amarognola e ci siamo persi il frutto. Da Seneca abbiamo assimilato il moralismo lamentoso e incoerente, di chi predica bene e razzola male, ma non la sua visione e la sua saggezza. Da Leopardi abbiamo assimilato il pessimismo cosmico come alibi all'immodificabilità del mondo e all'inutilità dell’impegno per cambiarlo, ma ci è rimasta estranea la sua profondità, il suo spirito antiretorico, la sua lucidità implacabile.
Gómez Dávila dedicò la vita a leggere e scrivere. Si è ispirato a lui?
L’ho conosciuto troppo tardi come autore per potermi ispirare a lui. Diciamo che ho vissuto facendo anche altro, ma alla fine le cose migliori sono legate a quel duplice impegno, che ha coinciso con la mia professione e la mia vocazione, il mio dovere e il mio piacere: leggere e scrivere come inspirare ed espirare a pieni polmoni mentali.
“Cultura è tutto ciò che non può insegnare l’università”. Concorda?
Direi di sì. Perché cultura è uno stile, una visione, una tradizione, e tutto questo non deriva dall'insegnamento universitario, dalle lezioni, ma da un fertile intreccio di vita, studi, esempi, memoria e pensiero.
Da attento lettore di Emanuele Severino che cosa non la convince dell’essere eterni?
Dovrei riprendere e ampliare quel che ho già scritto a lui, ma in una battuta mi limito a opporre all'eternità del tutto la realtà caduca che ci è davanti, la nascita e la morte di tutte le cose. Possiamo pensare che qualcosa si salvi, una radice, una traccia, un dna, e che torni all'essere dopo la parabola del divenire, ma non riusciamo a pensare che tutto sopravviva in eterno nella sua irriducibile molteplicità, se non mediante una fede, che invece Severino esclude. Ma un tema così grandioso, in un pensiero così potente, non può essere liquidato con una battuta, è solo un accenno...
La morte è meglio che ci colga preparati?
Meglio per chi? Non lo so. A volte penso che ciascuno abbia con la morte il rapporto che gli è confacente, salvo morti premature, improvvise. Qualcuno potrebbe sostenere che è meglio lasciarsi sorprendere dalla morte, essere indaffarati, non pensarci. Vivere e così resistere alla morte. Per quel che mi riguarda ho preferito negoziare la resa con l’ineluttabile, ho concepito la vita come un’educazione permanente alla morte, l’elaborazione preventiva del mio, del nostro venir meno, un prepararsi, allenarsi a non essere più e a non vedere più chi ci è caro. Non riesco a sottrarmi a quel pensiero dominante, in senso leopardiano; preferisco rielaborarlo e insieme rielaborare l’idea che il mondo esista oltre noi, e che la vera saggezza sia vedere il mondo con gli occhi degli dei, degli intramontabili.
Il Foglio sportivo - in corpore sano