Filosofeggiando con… ALESSANDRO BARBANO
“Il giornalismo ha abdicato di fronte alla disintermediazione, perdendo il contenuto di media. La tecnica vince sulla cultura e impone i suoi fini, ma non era e non è ineluttabile. Siamo noi ad aver sbagliato. Siamo finiti sulla perdita di senso, sulla dismissione della verità. Peggio del populismo c’è soltanto l’antipopulismo. Bisogna ricomporre intorno all’idea di persona e grazie alla cultura tutto ciò che è stato separato, spaccato. I professionisti dell’anticasta somigliano ai professionisti dell’antimafia. Sciascia aveva capito tutto. La democrazia può ancora farcela a domare la rete”
Sei anni Direttore del “Mattino”. Che cosa ha lasciato in quel di Napoli?
Ho vissuto una stagione particolarmente felice. Quando sono arrivato, fine 2012, c’era il vuoto della politica nel Mezzogiorno, lo smottamento della classe dirigente, l’inesistenza di un potere. All’interno di questa decadenza, “Il Mattino” ha giocato un ruolo di supplenza istituzionale. È stato un potere in assenza dei poteri, ha assunto una responsabilità in vece di un potere collassato, svolgendo a tutto tondo una intermediazione tra società civile e classe dirigente. Ho raccolto le energie migliori delle intelligenze del Mezzogiorno intorno a questo progetto, personalità di estrazione diversa ma tutte schierate a favore della democrazia rappresentativa. Penso a De Giovanni, Masullo, Calise, Macry, Adinolfi, Piana, Fiandaca, Tesauro, Manes, Insolera, Corbellini, Zambardino, Perrella, Durante, La Capria, Giannino, La Malfa, Reichlin, Campi, Mancina, Cardini, Montesano, Verde, Nicolucci, Rosina, Possenti, Scotto di Luzio, Viesti e altri, insieme alle irrinunciabili voci interne. Ma ho avuto soprattutto il privilegio di una straordinaria redazione con colleghi valorosi, generosi, capaci di sentire e condividere la responsabilità. Abbiamo realizzato un giornale che aveva un’anima. Abbiamo pensato, scritto e costruito.
Nel lontano 2003 scrisse un libro sull’Italia dei giornali fotocopia, nel 2012 un manuale di giornalismo. A che punto è la malattia di questa professione?
Nel 2003 la malattia era l’omologazione alla televisione. Oggi il problema è la residualità. La stampa non guida più i processi sociali. Il giornalismo ha abdicato di fronte alla disintermediazione, perdendo il contenuto di media. Media vuol dire filtrare, decidere cosa entra e cosa no nel dibattito pubblico. I video dei politici senza contraddittorio ci rendono ormai dei conduttori di silicio. La crisi della carta stampata non deriva dalla qualità, ma dalla funzione. Il ruolo di cerniera tra élite e massa è saltato. L’impatto della tecnologia sulla democrazia è stato distorsivo. I populisti si sono imposti contro i giornali, pensi alle vittorie di De Magistris a Napoli. Il mercato internettiano e gratuito ha imposto la vittoria della quantità sulla qualità. La tecnica vince sulla cultura e impone i suoi fini. Ma non era e non è ineluttabile. Siamo noi ad aver sbagliato.
Non è ineluttabile arrendersi alla potenza della tecnica?
La cultura, dice Severino, crea la tecnica. Quest’ultima compie il parricidio, nata come mezzo diventa fine, si fa fine. Ma noi liberali siamo abituati a considerare il futuro come il frutto di un’esperienza aperta alle nostre intuizioni e ai nostri errori, e non possiamo accettare l’idea del parricidio ineluttabile. Tuttavia dobbiamo riconoscere che questo schema racconta con un’iperbole la congiuntura di un rapporto, quello tra cultura e tecnica, che vede in questi anni la prima soccombente alla seconda. Applicato alla democrazia, il paradigma Severino mostra come, quando l’elemento tecnocratico disintermedia tutti i poteri e le connessioni che li bilanciano, la società assume una configurazione apparentemente piatta in nome di un’uguaglianza orizzontale, assunta fittiziamente come istanza di giustizia. In realtà, in assenza di mediazioni, la società si fa più debole e si espone alla pressione di monopoli occulti. La tentazione plebiscitaria mostra il suo persistente rischio di slittare verso un senso comune che si impone con un omologante conformismo. Non raccontano forse questo rischio i flussi di consenso che il populismo chiama a sé nelle piazze “fisiche” e “virtuali” della democrazia italiana?
Già nel 2011 aveva dialogato con alcune personalità di rilievo per comprendere dove saremmo andati a finire. Dove siamo finiti?
Siamo finiti sulla perdita di senso, sulla dismissione della verità. Quel libro, con quattrocento domande a otto studiosi del nostro tempo, parlava di un rischio, il rischio di una clamorosa rinuncia. L’Occidente ha rinunciato a far dialogare Cristianesimo e Illuminismo. Quando l’Europa nel 2005 mette il Cristianesimo fuori dallo spazio pubblico, quando viene messo al bando il discorso di Papa Ratzinger a Ratisbona che ammonisce l’Islam, ma anche l’Occidente a non separare ragione e fede, si apre la frattura. Quando si apre la frattura si infila la potenza tecnologica non più governata. Si infila edipicamente tra padre e madre e spacca, imponendo verità surrogate. E l’Europa declina.
Che cosa intende per verità e per dismissione della verità?
Non intendo la verità di fede, non intendo sposare la teocrazia. Intendo i relativi assoluti della liberaldemocrazia, la difesa di quei valori che sono relativi, cioè flessibili, ma in parte assoluti, poiché contengono delle rigidità che accompagnano la crescita della civiltà. Rispetto della vita, libertà personale e solidarietà, che ora sono fragili, soprattutto in Italia, perché vi sono debolezze istituzionali e immaturità della democrazia.
Quanto incide l’ipertrofia dei diritti nel declino italiano? Si può morire di troppa libertà?
Certo. L’ipertrofia dei diritti è la culla del populismo. Manca l’ancoraggio dei doveri, manca la sfera etica, manca un investimento sui modelli civili e sociali.
Aldo Masullo sostiene che il nuovo corpo sociale non si fa vestire più dall’abito della vecchia politica. Quale potrebbe essere il nuovo abito?
Sì, so che cosa vuole intendere l’amico Masullo, però io starei attento a utilizzare le categorie del vecchio e del nuovo. In nome del nuovo abbiamo distrutto la rappresentanza e costruito la peggiore classe dirigente della storia repubblicana. Tutto ciò che è progressivo migliora la condizione umana? Non è vero. Abbiamo masse che reclamano pretese, innaffiate da promesse non mantenibili dalla politica e dai populisti, che della politica rappresentano l’ultimo stadio. Dobbiamo pretendere un lessico della verità. Non saremo ascoltati sul breve, ma sul tempo lungo il lessico della verità si affermerà. Sul breve vince solo il populismo. Purtroppo, i dati economici evidenziano una verità raccapricciante e scandalosa: una generazione ha preso tutto sottraendo occasioni di futuro alle generazioni successive. Tutto viene scaricato su chi verrà dopo. Occorre una pedagogia civile che torni a parlare e a persuadere. Ci vuole coraggio.
Ha scritto che la malattia del populismo è la “consensite”. Ma senza consenso, senza voti, non si vince e non si governa…
Non c’è dubbio, ma va modificata la natura del consenso, che sia più consapevole per costruire un futuro diverso. Dobbiamo avere ansia di futuro. Abbiamo perduto l’ansia di futuro.
Massimo Recalcati le ha posto una domanda, che faccio mia: il consenso populista è solo espressione di un analfabetismo politico, dell’imbarbarimento irrazionale della vita civile, oppure l’illusione populista arriva a soddisfare una pulsione assai più profonda che tocca l’essere umano?
Recalcati, da psicoanalista, si riferisce al bisogno conservativo e distruttivo che ci sarebbe nell’uomo. Per lui la politica è fatta di pathos. Io sono un liberale. La separazione tra emozioni e verità è psicoanalitica. Bisogna tornare al logos, che non è privo di passioni. Dobbiamo ricomporre la frattura tra logos e pathos. Le ideologie sono un contropopulismo. Le rivoluzioni non servono, perché producono avanzamenti brucianti e repentine e disastrose marce indietro, mentre l’essenza del riformismo si ha quando grandi cambiamenti sociali conseguono a piccoli cambiamenti dei meccanismi regolatori. Peggio del populismo c’è soltanto l’antipopulismo. Invece, bisogna ricomporre intorno all’idea di persona e grazie alla cultura tutto ciò che è stato separato, spaccato.
Quale delle dieci bugie elencate nell’ultimo libro è più pericolosa?
L’ultima, cioè che il nuovo è sempre meglio del vecchio.
L’abbattimento, per mano giudiziaria, della democrazia dei partiti è stata la causa di tutti i mali?
Una delle cause, ma con un ruolo importante, decisivo. La politica si è ritirata, ha rinunciato alla sua maestà, ha dismesso la verità. La prima grande bugia della storia del Paese, ferita mai sanata, fu la teoria della fermezza sul “caso Moro”. Questa contraddizione portò alla crisi del sistema e alla seconda grande bugia: tutto è corruzione e per guarire bisogna consegnarsi alla magistratura. Come si sostengono i costi di un sistema politico? La domanda di Craxi è rimasta inascoltata. La cosiddetta Seconda Repubblica nasce da una seconda bugia. Il populismo è la terza bugia.
Possiamo definirlo meglio questo benedetto populismo?
Lo faccio nel mio ultimo libro. Origina da uno slittamento del pensiero progressista e liberale verso un’espansione illimitata dei diritti e assume la forma di una febbre parassitaria della globalizzazione. Lucra sulle disuguaglianze dei mercati aperti, semina odio sui conflitti del multiculturalismo, sfida la secolarizzazione con le sue patacche identitarie, oppone il nazionalismo alla rigida governance finanziaria di un’Europa divisa tra Nord e Sud, semina l’invidia nella classe media impoverita, inietta nella società intera il virus dell’analfabetismo funzionale e cognitivo. La sua continuità sostanziale con la crisi della democrazia liberale è dissimulata. Questa ipocrisia lo fa più infiltrante e pervasivo, e lo diffonde oltre i suoi confini dichiarati, fino a imporlo come una postura sociale e un senso comune.
I professionisti dell’anticasta somigliano ai professionisti dell’antimafia?
Assolutamente sì. Sciascia aveva capito tutto. Sono due facce della stessa medaglia. L’Antimafia è la più grande macchina di dolore umano non giustificato e non giustificabile. La morte dello Stato di diritto. È una struttura totalitaria che si è insediata nella democrazia. È qualcosa che non è previsto dalla Costituzione, ma è figlia della prassi. Un centro di grande potere che deve giustificare sé stesso. Un colossale apparato burocratico. Il codice antimafia! Si è inscenata una retorica pubblica menzognera senza risolvere il problema della mafia. Dopo averla sconfitta con le indagini, com’era giusto che fosse, oggi l’apparato deve tenerla in piedi per giustificare sé stesso.
Dall’etica della responsabilità all’estetica della miserabilità. Quanta responsabilità ha la classe politica degli ultimi 25 anni?
Tanta, poiché l’etica della responsabilità è introiettiva, avverte il peso della responsabilità, lo sente e lo sostiene. L’estetica della miserabilità è proiettiva. La proiezione è propria di chi rifiuta questa responsabilità e vede il male soltanto all’esterno, fuori di sé.
Se non c’è più la democrazia rappresentativa, a che serve continuare a votare?
Serve eccome. Chi racconta della democrazia diretta, racconta di una menzogna clamorosa. Serve eccome votare, tanto che la vera sfida non è più tra Destra e Sinistra, ma tra chi vuole difendere la democrazia rappresentativa e chi la vuole affossare. Tra chi vuole separare potere e sapere e tra chi ritiene che non sia possibile separarli. La democrazia non è soltanto sovranità popolare, ma è anche contrappesi liberali, tecnocrazie, accademie, stampa, filtri, poteri di garanzia. È un’architettura complessa, la democrazia!
A tweet, tweet e mezzo. A selfie, selfie e mezzo. Siamo invasi dai selfie, d’accordo, ma com’è possibile arrivare diversamente a un cittadino che non ha introiettato il suo telefonino, bensì lo è addirittura diventato?
Rispondere con lo stesso mezzo è l’errore più grande. A selfie, il contrario del selfie. A selfie, delega. A selfie, sfida per ricostruire l’opinione pubblica. A selfie, mediazione. A selfie, intermediazione.
Democrazia censitaria, democrazia illiberale, democrazia diretta, democrazia plebiscitaria. Tutte forme per dire che non è la vera democrazia. Per Maritain, “la tragedia delle democrazie moderne è che non sono ancora riuscite a realizzare la democrazia”. Ma quella vera è possibile?
La democrazia è strutturalmente imperfetta, è coscienza di questa imperfezione ed è tensione dialettica verso avanzamento e perfezione. E sa che cosa le dico in conclusione?
Che mi dice?
Che la democrazia può ancora domare la rete senza annientarla e senza farsi annientare da essa. Ma a patto di riconoscere dove fin qui ha sbagliato e di comprendere appieno l’ampiezza della sfida. Che vuol dire guidare la tecnica, ancorare i diritti ai doveri, chiamare i mercati a una responsabilità, aggiornare le istituzioni rispetto ai cambiamenti sociali: a questi impegni corrisponde la giusta misura della libertà.
Il Foglio sportivo - in corpore sano