Salvatore Natoli, il fine della politica
Nel nuovo libro del filosofo siciliano la categoria giudaica di éschaton viene analizzata dall’origine ai giorni nostri, quando perde la sua essenza, mentre il governo delle cose umane brancola nel buio e tenta di trovare nuovi significati, nuove visioni. Dialogo su temi, nomi e nodi che hanno accompagnato il magistero di uno dei più importanti filosofi italiani
Quando penso a Salvatore Natoli, penso al filosofo formato da solidi studi, dotato di spessore concettuale, di non comune capacità teoretica. Ho aperto e letto Il fine della politica. Dalla “teologia del regno” al “governo della contingenza”, edito da Bollati Boringhieri, ritrovandovi tutte le convincenti argomentazioni dei suoi libri che, nel corso degli anni, hanno preso posto all’interno della mia biblioteca. Questa volta, però, non mi sono limitato a leggerlo e a presentarlo. Ho deciso anche di chiamare l’autore per riattraversare alcuni temi cruciali del suo lungo percorso filosofico.
Il nuovo libro mostra con evidenza la finezza del filosofo nel pensare e ragionare sul …fine, nel cucire l’idea di éschaton, di come l’attesa del mondo a venire abbia inciso nella storia dell’Occidente e della sua filosofia politica. Scrive Natoli: “La cristianità, nella sua storia, ha costantemente differito l’éschaton, ma questo vuoto è stato coperto dal consolidarsi di istituzioni sostitutive che sono riuscite a tacitarne l’urgenza. La Chiesa, che aveva il potere di dispensare qui e ora la salvezza (extra Ecclesiam nulla salus), è riuscita ad ammutolire l’urgenza apocalittica rendendo liturgica e teatrale l’attesa della fine. Ha soprattutto amministrato la preoccupazione per la salvezza tramite la pratica delle buone opere; come s’usa dire: al fine di meritare il Paradiso”. La Chiesa è diventata soprattutto “una grande macchina organizzativa che ha modellato la vita delle persone”: i tempi ordinari della vita quotidiana (calendario e riti) e i momenti estremi (la nascita e la morte). È riuscita perfino a penetrare nelle pieghe più segrete delle coscienze (confessione e direzione d’anime)”. Eppure, “dolore e morte non hanno mai abbandonato la terra”.
Il progresso e il moderno hanno programmato la gestione delle cose del mondo, senza più alcuna fine da attendere, ma con il compito di attendere piuttosto alle cose del mondo. Natoli si chiede se sia ancora possibile pensare in questi termini e aggiunge: “La politica ha, oggi, avanti a sé, un tempo senza fine. Opera nello spazio di un perpetuo transitare: non può, dunque, avere un éschaton, ma mantiene tuttavia il suo télos: che non è una meta finale da raggiungere, né un fine estremo da perseguire, ma è la ragione immanente ad ogni ente perché esso sia “quello che è”, per il suo esistere. Ora, finché uomini ci saranno, compito della politica è e resta quello di garantire la giustizia, moderare i conflitti, mantenere la pace, provvedere al pubblico benessere: infine, permettere a ognuno di perseguire la propria felicità. Se così è, la politica non può non tenere in vista il futuro e, per farlo, deve eleggere fini, avere visioni. Ma per questo non c’è bisogno di alcun éschaton: basta aderire al presente. Che vuol dire? Non appiattirsi su di esso, non la pura istantaneità, ma, anzi, afferrarlo prendendolo controtempo, ossia distaccandosi da esso per porsi sulla soglia tra passato e futuro”.
Tra passato e futuro si collocano anche gli altri libri di Natoli, i libri che lo connotano, che ne fanno uno dei più importanti filosofi italiani. Uno dei più importanti non per come appare, ma per ciò che pensa, per ciò che scrive, per come lo scrive, per l’arte del filosofare che lo accompagna da decenni tra le passioni del mondo, tra le grandi domande che angosciano gli uomini del mondo, tra il dolore e la fiducia, il saper stare al mondo e l’edificazione di sé, la speranza e la perseveranza, il bene, il male e Dio, Manzoni, Dostoevskij e Leopardi, Nietzsche e Heidegger. Su questi temi, nomi e nodi si è sviluppato un dialogo dove la domanda ha atteso la risposta, e la risposta una nuova domanda. Con Natoli non smetterei mai di domandare…
Ho nella mente e nel cuore il suo magnifico L'esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale. Vivere è fare soprattutto esperienza del dolore?
Tutt’altro. Il dolore è certamente parte della vita e in taluni casi la aggredisce o addirittura la annienta. Quando si soffre, la mente si ottunde, si impoverisce. Eppure, per quanto il dolore sia inevitabile, il vivere coincide con la piena realizzazione delle proprie possibilità, almeno per il tempo assegnato. Diciamo che occorre valorizzare la propria vita anche attraverso la prova del dolore.
Il dolore dell’uomo, nel corso dei tempi, è mutato o è rimasto lo stesso?
Il dolore come danno, come decadenza è pressoché uguale nel corso dei tempi. Importante è capire che senso dare al dolore. Tra i greci il dolore selezionava gli uomini, era forte chi sapeva uscire dalle ferite della vita. La differenza era tra chi reggeva e chi no. Il cristianesimo ha dato forza anche ai più deboli, poiché il dolore lo si vive nell’ottica della speranza, del riscatto. Nel mondo contemporaneo, la tecnica ha allungato i tempi della vita e ridotto il peso vivo della sofferenza. Insomma, tutto dipende dall’orizzonte di senso. Esiste una piena circolarità tra danno e senso.
Qual è il principale nodo della vita?
La vita ha molti nodi. Uno di essi è proprio il dolore. E quando lo provi, ne esci diverso, cambiato, mutato. Ma ci sono i nodi delle scelte, del cosa fare, del cosa decidere in base agli accidenti dell’esistenza. Per esempio, la scelta di un legame, la capacità di costruirlo e di tenerlo nel tempo. I nodi sono anche modi per risolvere i problemi, per ribaltare la difficoltà in soddisfazione.
La morte da tempo è stata nascosta, eppure non se n’è mai andata. Perché si è sentito il bisogno di allontanarla?
La morte un tempo era esposta, il cadavere era visitato e ben celebrato. La tomba era monumentale, bisognava restare nella memoria, il lutto veniva portato a lungo. La morte era presente nella vita e accettata nella sua violenza. Con i riti la società ritesseva la vita. Adesso la morte è sparita dalla dimensione pubblica, divenendo invisibile. Si continua a morire ma è diventata segreta, con due modalità. Una, intima. Si muore con i propri, accanto a chi ti è proprio. L’altra, solitaria, da abbandono, da solitudine estrema. Quando appare non tocca l’anima, è lontana. Del resto, Hume diceva che l’uomo si preoccupa più dell’unghia di un proprio dito che del crollo del mondo.
L’uomo esiste fino a quando è un soggetto?
In quanto uomo sì, avendo la consapevolezza di sé. Se non voglio essere una cosa del mondo, devo avere coscienza di me. Il dolore è patibile se c’è un soggetto che ne fa esperienza.
La scienza ha allungato la vita, ma non ha eliminato la morte e, per la verità, neppure la sofferenza. Come se la cava, la filosofia, con quest’ultima?
La filosofia sta prima, viene prima, è anche arte di saper morire. La filosofia è vivere la fine al meglio possibile, è sapersi accompagnare, vivere ogni momento, ogni fase, nella sua pienezza. La scienza ha illuso di poter esorcizzare la morte, ma ha dimostrato di non potere tutto. Ha reso l’uomo spettatore della propria dissoluzione. Ecco perché proprio nel tempo della tecnica ci vuole più filosofia, più capacità di comprendere ciò che accade, che ci accade.
Che cosa intende con “stare al mondo”?
È una formula che ho preso dal senso comune. Intendo come trovare la propria posizione, correlando la propria potenza con ciò che offre il mondo, che è apertura del possibile.
L’edificazione di sé è uno dei suoi libri più amati. Come ci si edifica?
È una abilità a esistere, a costruire la propria vita. Ci vuole la competenza per affinare i comportamenti. Acquisire un metro di giudizio per capire quando osare, quando fermarsi. Penso al castello interiore di Teresa d’Avila.
Il carattere lo si ha o lo si forma?
È una disposizione naturale, c’è un timbro di base, però esiste la capacità di trasformarlo, di adeguarlo. Partendo da una disposizione, lo si forma. Avere un carattere vuol dire mantenersi stabile di fronte alla variabilità degli eventi. Serve a non perdersi, a non dissolversi di fronte alle avversità. Qui sono in gioco espansione e resistenza.
Che cos’è il male?
Distruzione, dissoluzione, annichilimento del bene.
Sul male ha detto più e meglio Dostoevskij o Manzoni?
In modo diverso, con tagli diversi, entrambi hanno dato un affresco grandioso del male.
Ha scritto che fidarsi è difficile ma necessario. Non fidarsi, talvolta, non è obbligatorio?
Il non fidarsi vuol dire chiudersi e la chiusura è un progressivo morire. A chi dice che fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, oppongo che fidarsi non è facile ma è meglio fidarsi. È un rischio vitale. È importante la fiducia in sé stessi, perché se ne hai, sei anche pronto ad accettare la delusione di una fiducia non rispettata.
Viviamo un’epoca in cui in tanti lavorano per accrescere le paure. Com’è possibile diminuirle?
Il potere ha sempre speculato sulle paure per dominare, presentandosi come colui che protegge, che si mette a tutela, creando sudditi da un lato e potere arbitrario dall’altro, poiché non criticabile. Bisogna evitare la speculazione selvaggia. Come? Trasformando la paura in problema, cercando le cause esterne e interne. Le passioni tristi sono tristi perché il soggetto è passivo e ignora le cause. Occorre una discussione pubblica per possibili trame di soluzioni.
La felicità appartiene al caso?
Anche al caso, ma è quella più labile, perché non l’hai preparata e conquistata. Se la produci tu, diventa stabile. Per questa felicità occorre la virtù.
Quale parola aggiungerebbe in un nuovo Dizionario dei vizi e delle virtù?
Aggiungerei osservazioni più che parole e ne ripenserei alcune.
Perché dovremmo leggere Nietzsche?
Perché disincanta, mostra i doppi fondi del reale, stana la falsa coscienza. Pensi alla rivelazione sulla morale. Anche se molte volte ha una visione parziale. Con un lampo ti fa vedere ciò che è nascosto, ma può anche deviarti.
E Heidegger?
Perché ha dato un grande contributo di analisi dell’esistenza umana, della sua condizione.
Speranza e perseveranza fanno soltanto rima o possono essere anche una sola parola?
Una sola parola no, ma sono strettamente connesse. Il laboratorio concreto della speranza è la perseveranza.
Leopardi è la migliore esaltazione della simbiosi tra filosofia e poesia?
Una delle più grandi. Non dimentichiamo Omero, Dante e Shakespeare.
Dio, per Giuseppe Prezzolini, è un rischio. Per lei?
Non scommettendo, alla maniera di Pascal, non è neppure un rischio. È figura attraente come promessa di salvezza e di vita eterna. Non si può dimostrare che c’è ma neanche il contrario, e allora come uomini siamo chiamati a sporgerci sul mistero.
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