Franco Ferrarotti, la società irretita
Dall’ultimo libro del grande sociologo italiano emergono gli uomini vuoti, eterni spettatori, resi passivi, defraudati dalla vera conoscenza, dalla miglior conoscenza che resta il rapporto faccia a faccia. Impietosa analisi sul valore strumentale della tecnica, sull’assenza della politica, sulla precarietà della sociologia, sulla necessità di ricordare, di preservare la memoria, che costituisce l’essenza della presenza umana nel mondo
Ci sono parole, sapete, che escono dalla mente di qualche studioso intelligente e s’impongono, fanno il giro del mondo, passano di bocca in bocca, di libro in libro. È successo con il termine liquido (modernità o società liquida), è successo a Zygmunt Bauman. Ci sono altre parole, sapete, che escono dalla mente di qualche studioso intelligente e non s’impongono, non passano di bocca in bocca, di libro in libro, ma hanno una forza alternativa e più incisiva, capaci di raccontare e di cogliere l’essenza che ci costituisce. Succede con il termine irretita (società irretita), succede con Franco Ferrarotti, la prima cattedra di Sociologia in Italia, che ora se ne sta in disparte, nel suo studio romano, senza tuttavia mollare la presa, senza smettere di elaborare visioni. Il pensiero involontario. Nella società irretita, edito da Armando, è l’ultima visione: «La caratteristica fondante degli esseri umani è la loro imprevedibilità, qualità straordinaria, che li distingue radicalmente dagli animali non umani e si manifesta nel pensare involontario, non precondizionato da uno scopo prefissato, libero e anche, talvolta, del tutto gratuito. Prodotti deperibili, senza la data di scadenza, ospiti per una sola volta del pianeta Terra, gli esseri umani – uomini e donne – non sono nulla in senso assoluto. Sono soltanto ciò che sono stati. Più precisamente: ciò che ricordano di essere stati. L’assioma di Cartesio, che è all’origine della scienza e in generale del pensiero moderno, va mutato in profondità. Non “cogito, ergo sum”, bensì “reminisco, ergo sum”. La memoria è fondamentale, costituisce l’essenza della presenza umana nel mondo. Ma la memoria, oggi, è sotto attacco. La comunicazione elettronica la rende obsoleta, se non superflua, non più necessaria. Agli inizi del terzo millennio, un pericolo mortale pesa sull’avvenire dell’umanità».
La sociologia, per Ferrarotti, vive «un senso di precarietà, di debolezza, poiché non ha fatto i conti fino in fondo con le origini filosofiche. È figlia di nessuna, è scienza inferma, ha detto Croce, ma tutte le scienze sono inferme. Ha sofferto del complesso di inferiorità, persa dietro la raccolta dei dati che spiegano poco, mentre occorre tornare alle storie di vita, all’esame di ciò che non è campionabile. Oggi la sociologia appare frammentata, si sbatte per offrire risultati parziali a committenti che ne fanno ciò che vogliono. Bisogna tornare a studiare il pensiero sociologico, bisogna riappropriarsi del rigore teoretico e filosofico, bisogna ri-leggere Max Weber e comprenderlo, finalmente!».
Ferrarotti s’infervora sul valore strumentale della tecnica, che «non può essere principio guida, non dice da dove veniamo, dove siamo e dove andiamo. Nata per servire, ti asservisce, rende inutile il ricordo, appiattisce, elimina la variabilità storica. Tutto diventa una enorme pianura costellata da stazioni di servizio e sperabilmente, aggiungo io, di autogrill”. La mancanza della politica è estremamente importante: «Certo, perché politica è acquisire quote di potere e soddisfare le richieste emergenti, mentre oggi combatte battaglie disperate di retroguardia. Pensi ai politici che si riuniscono, dibattono e poi aggiungono: vediamo cosa dicono domani i mercati! Ha capito? I mercati! Invece di elaborare un pensiero, di guidare i fenomeni, di indicare la strada, attende il responso dei mercati. Mercati, tra l’altro, che non esistono, perché sono l’espressione di alcune grandi società internazionali che determinano tutto». In Italia «tutti vogliono il potere, ma poi, impadronitisi di una fetta più o meno grossa di potere, non succede nulla. Quasi che tutta l’energia disponibile fosse stata spesa nella corsa al potere. Finita la corsa, ci si affloscia. Al più, si continua a far campagna elettorale, discorsi, annunci, rallegramenti o condoglianze. Ma non si governa, non si decide, non ci si sente praticamente responsabili, veri rappresentanti».
La società è irretita perché «si può comunicare in tutto il pianeta in un attimo ma non si ha più nulla da comunicare. La rete apre a una connessione che appare liberante, mentre in realtà incatena impedendo di fare esperienza. È necessario ritrovare il pensare involontario, spregiudicato, gratuito. Bisogna ruminare, fare interpretazione, esegesi, non confondere la datità con la realtà effettuale. Leo Strauss avrebbe tanto da dire. Tutti si sentono liberi ma è una trappola, confondono la datità con il valore, la funzione con la funzionalità. La società dei funzionari, che era il cruccio di Weber, è la società che, esaurita la funzione, è defunta, morta».
Eppure, la crisi impone un’attesa vigile: «La crisi lacera, divide, squarcia, fa sanguinare. Ma la crisi ha anche una funzione epifanica: apre e rivela, costringe a guardare dentro, nel profondo. Non è la stasi dei mistici che prepara l’estasi trascendente. Non è il pianto di Pier Paolo Pasolini su una presunta “omologazione”, in cui l’eguaglianza sociale viene scambiata per conformismo generalizzato e pensiero unico, facendo ricorso a parole e a concetti di cui si ignora il significato proprio. La crisi provoca un arresto. Obbliga a una pausa. Non consente più di spacciare la pura, caotica espansione per sviluppo ordinato e omogeneo. La crisi insegna ad ascoltare. È la pedagogia dell’ascolto, la diffida della frase fatta, il rigetto della certezza prefabbricata».
Ma cosa ascoltare? Cosa leggere? Chi leggere? Ferrarotti è impietoso: «Come un consumato, callido truffatore, il computer, insieme con Internet, Youtube, Facebook, Twitter, si presenta e viene propagandato dalle ditte commerciali che lo producono come un arricchimento della memoria nello stesso momento in cui contribuisce efficacemente alla sua distruzione. La memoria è sotto attacco, ma in modo insidioso. Viene sgretolata dall’interno mentre, in apparenza, si presume o si pretende di aiutarla. In realtà, la memoria viene dichiarata e ritenuta obsoleta. Non è più necessaria, è una fatica inutile, anacronistica, studiare a memoria. Nelle scuole elementari di oggi non è più studiata a memoria neppure la tavola pitagorica. A ricordare ci penserà il computer. Lo studio a memoria o, come dicono con un’espressione splendida, di cui sono inconsapevoli, gli anglofoni, lo studio “by heart”, con il cuore, non è più apprezzato. Viene considerato inutilmente faticoso, tipico di un’età tramontata, anacronistico. Si pensa: perché studiare a memoria la tavola pitagorica quando ci sono i piccoli, maneggevoli, rapidissimi calcolatori? Ma senza memoria l’essere umano si svuota; emergono gli uomini di paglia, gli uomini vuoti, gli “hollow men”, che il poeta (T.S. Eliot) ha previsto oltre mezzo secolo fa, caracollanti, disorientati abitatori della “terra guasta”, della “Waste Land”».
Emergono gli uomini vuoti, eterni spettatori, resi passivi, defraudati dalla vera conoscenza, dalla miglior conoscenza che resta il rapporto faccia a faccia: «La vita ci sfiora, ma per interposta persona; è una vita di riflesso che non vive, vita imitata, ombra di un’ombra. È in definitiva una vita di riporto. L’essere spettatore dispone alla partecipazione passiva, alla fruizione vicaria. È l’anticamera della passività mentale e dell’inerzia politica, la necessaria premessa a una manipolazione che diviene, nel caso di società tecnicamente progredite, sufficientemente depersonalizzate e dinamiche, una sorta di colonizzazione interiore e di proletarizzazione dell’anima – ossia, risoluzione e sussunzione dell’individuo nello schema produzione-consumo-produzione. Nessuno più vive. Si viene impersonalmente vissuti. Da punto di partenza e punto di arrivo, l’individuo si è semplicemente indebolito, appiattito e omogeneizzato fino a dissolversi».
Ferrarotti, 93 anni, sa di percorrere l’ultimo tratto di un’esistenza piena, spesa bene. Non ha timore della morte, ma della morte che non muore, dei finali imprigionati nell’agonia. Si augura, quando sarà, che sia un finale breve, un saluto veloce a un mondo che non gli piace ma che non smette di osservare e interpretare. Un mondo da cui non si è fatto respingere, com’è accaduto al suo caro amico Pavese: «Non ho mai smesso di pensare a Cesare. C’erano vent’anni di differenza. Era un uomo molto schivo, complesso, che amava depistare, prendersi gioco, lui contadino langarolo, degli urbanizzati. Non lo hanno compreso, né prima né dopo. Era attirato e spaventato dalle donne, ma non si è ucciso per una donna. Era un credente mitico, ossessionato dalla colpa, un pre-religioso con il senso del mistero e di ciò che era antico e legato alla tradizione. In fondo, mi diceva, non facciamo altro che scrivere per raccontarci a noi stessi, per cercare di venire in chiaro. Il mito ci fa vivere il racconto dei racconti ma non possiamo comprenderlo. Nell’impossibilità di conciliare mito e ragione c’è la fine di Pavese, la sua morte. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Stai attento che arriva! È questo il monito. Paesi tuoi, Dialoghi con Leucò e La luna e i falò sono i suoi capolavori, insieme a Lavorare stanca, la grande poesia epico-narrativa».
Libri da leggere rigorosamente sulla carta, non in digitale. Per averne memoria, un giorno. Per ricordare ciò che abbiamo letto, ciò che siamo stati, ciò che ricordiamo di essere stati. Reminisco, ergo sum.
Il Foglio sportivo - in corpore sano