Guido Tonelli, tra scienza e filosofia
Intervista al grande fisico, in libreria con “Genesi. Il grande racconto delle origini”: “Se penso alle intuizioni di pensatori come Anassimandro o Democrito rimango senza fiato; per non parlare di Pitagora o di Eraclito. La scoperta del bosone di Higgs è una pietra miliare della conoscenza. La nostra ignoranza, una condizione fattuale e storicamente determinata, è destinata a ridursi col tempo e insieme a rigenerarsi e riprodursi su terreni che oggi ci apparirebbero impensabili. Stephen Hawking è stato un fisico geniale, ma anche autore di grandi sparate”
La classe è semplicità e Guido Tonelli, una delle nostre glorie internazionali, risponde con estrema semplicità e disponibilità alle domande che ho inteso rivolgergli sotto la calura dei nostri giorni. Chi legge Genesi, il suo ultimo libro edito da Feltrinelli, comprende che la scienza o ha un volto umano o non è, o ci viene comunicata attraverso la prosa (e la poesia) di uomini intelligenti o non è. Lo scienziato è attento alla filosofia, di essa si nutre, a essa riconosce l'importanza dello sguardo disincantato, restando senza fiato di fronte alle intuizioni dei grandi pensatori. Quando è così, e con Tonelli è così, non tutto è perduto.
La fisica contiene già in sé la filosofia o la incontra lungo il percorso delle sue osservazioni?
Condivido l’opinione di chi ritiene che scienza e filosofia abbiano una lontana origine comune. Ne ritroviamo l’eco ancora oggi, quando approviamo una nuova tesi di dottorato: sarà PhD, cioè dottore in filosofia, il titolo che accompagnerà il ragazzo o la ragazza in tutto il mondo. D’altra parte, nel brano celeberrimo con cui si apre il primo libro della Metafisica, Aristotele scrive esplicitamente che gli uomini, partendo dalle domande più semplici, giunsero a interrogarsi su fenomeni sempre più complessi, fino a porsi questioni sulla Luna, il Sole e gli altri astri, e a chiedersi da cosa è stato generato l’universo intero. Mi piace pensare che scienza e filosofia nascano quindi assieme, creature gemelle, figlie dello stupore, misto ad angoscia e curiosità, di fronte al cielo stellato che ci sovrasta e ci affascina da tempo immemorabile.
Qual è il sapere della filosofia che la scienza non sempre comprende?
Con Galilei la scienza ha sviluppato un metodo di indagine potentissimo, critico anche verso sé stesso e capace di auto-correggersi. Questo l’ha resa una disciplina insuperabile nel descrivere tutti i fenomeni naturali misurabili e riproducibili. Nessuna teoria filosofica può competere con la fisica moderna nel descrivere l’origine dell’universo o il comportamento della materia sul piano microscopico. Ma la scienza non può essere usata in tutti i campi; ci sono questioni di importanza vitale per l’umanità nelle quali l’approccio scientifico non solo non funziona, ma potrebbe portare a conseguenze inquietanti. Spero che a nessuno venga mai in mente di usarlo per dirimere questioni etiche o estetiche, per decidere cioè cosa è bene e cosa è male, cosa è bello e cosa è brutto. Lo stesso vale per molti altri campi, altrettanto fondamentali: come si organizza la comunità umana per produrre ricchezza? come si regolano le relazioni fra individui e gruppi sociali diversi? come si risolvono i conflitti interni e quelli fra diverse comunità? Per non parlare delle questioni di identità, del rapporto con la propria interiorità, del sistema simbolico di valori attorno ai quali si costruisce una data comunità umana. L’elenco delle questioni nelle quali solo la filosofia, con il suo “sguardo disincantato” ci può orientare sarebbe molto lungo. Per certi versi, proprio perché la scienza ha fatto progressi così giganteschi e ci mette di fronte a nuove sfide, la riflessione filosofica è oggi ancora più importante rispetto al passato.
Democrito era arrivato a concepire l’atomo, per quanto indivisibile, come elemento primario della materia. Insomma, questi signori, senza gli strumenti di oggi, sulla base di processi intuitivi penetranti o, in termini crociani, di intuizione pura, sono arrivati a cogliere frammenti di Verità. Non ritiene che, al di là della preparazione specifica, elementi indispensabili siano certe forme di intuizione e di immaginazione creativa?
Se penso alle intuizioni di pensatori come Anassimandro o Democrito rimango senza fiato; per non parlare di Pitagora o di Eraclito. Tutti filosofi capaci di produrre incredibili salti di qualità nella conoscenza su basi puramente speculative. Razionalmente posso capire attraverso quali meccanismi Democrito arriva a concepire l’atomos; in una cultura che ha orrore dell’infinito, che considera cioè abominevole, quasi eversiva, l’idea di un processo che si ripete indefinitamente, ecco che l’indivisibile ci salva dal precipitare nel pozzo senza fondo, e impedisce alla mente di rompersi nella follia, fine inevitabile di chi rimane prigioniero della sequenza infinita. E tuttavia l’emozione che si prova ancora oggi a rileggere i suoi testi ci fa rimanere quasi ipnotizzati per l’ardire del pensiero e la modernità delle sue conclusioni.
Riesce a spiegare in poche righe l’importanza della scoperta del bosone di Higgs?
È una pietra miliare della conoscenza. Per millenni l’umanità ha considerato la massa una proprietà intrinseca della materia. Questo pregiudizio ha coinvolto anche gli scienziati ed è stato esteso a tutti i corpi materiali, comprese le minuscole particelle elementari che la fisica moderna considera i costituenti fondamentali della materia e delle sue interazioni. Ora sappiamo invece che questa proprietà nasce da una dinamica, è il risultato di un’interazione. È il campo scalare di Higgs, da tempo immemorabile congelato in un particolare stato di vuoto, che differenzia le particelle elementari fra loro; ciascuna acquisisce una specifica massa che risulta proporzionale alla diversa intensità della sua interazione con il campo stesso. È grazie a questo meccanismo che la materia si può condensare in forme persistenti: quark leggeri e gluoni possono formare protoni stabili, i mattoncini di base per organizzare la materia in atomi e molecole, con l’intervento di elettroni che hanno masse sufficientemente piccole da rimanere intrappolati in orbite stabili nel campo elettromagnetico dei nuclei. La scoperta cambia in profondità la nostra concezione della materia e delle dinamiche che hanno portato il nostro universo ad acquistare questa specifica forma materiale che ci sembra così familiare. Dobbiamo riscrivere dalle fondamenta i libri di fisica.
Da Neanderthal a Sapiens che cosa abbiamo guadagnato o perduto?
Il pregiudizio per cui i Sapiens, cioè noi, hanno soppiantato i Neanderthal perché portatori di un universo simbolico molto sviluppato, si è rivelato totalmente sbagliato. I nostri “cugini”, hanno colonizzato l’Europa centinaia di migliaia di anni prima dell’arrivo dei Sapiens. Organizzati in piccoli clan, abitavano anfratti che oggi ci restituiscono prove inequivocabili di un complesso insieme di rituali. Pareti affrescate con simboli e disegni di animali, cadaveri sepolti in posizione fetale, ossa e grandi stalattiti disposte in cerchi cerimoniali. Sono innumerevoli le testimonianze di una civiltà che aveva, con tutta probabilità, un linguaggio sofisticato che non conosceremo mai. È dunque possibile immaginare un racconto delle origini del mondo che riecheggia già in quelle caverne, con gli anziani che tramandano ai piccoli – potenza della parola e magia della memoria – l’eco di una storia antichissima. Occorrerà attendere migliaia di generazioni prima che Esiodo o chi per lui, con la Teogonia, ci lasci una testimonianza scritta di questo racconto, tessendo per primo un legame fra poesia e cosmologia.
L’origine, come dimostra il suo ultimo libro, la affascina. E la fine? O non c’è una fine?
L’universo, che ha avuto inizio 13,8 miliardi di anni fa, avrà, con tutta probabilità, anche una fine. Non sappiamo quando succederà perché abbiamo due ipotesi, alternative fra loro, e ignoriamo quale si realizzerà per prima. La prima è la morte termica dell’universo. Innumerevoli osservazioni ci dicono che l’espansione dell’universo sta accelerando, cioè le galassie si stanno allontanando l’una dall’altra a una velocità crescente col tempo e non abbiamo la più pallida idea del perché questo succeda. Prima o poi questo fenomeno, che chiamiamo energia oscura, finirà per prevalere e interromperà quel processo che ha finora permesso di riciclare il materiale che le stelle distribuiscono nello spazio circostante, con immani esplosioni, al termine del loro ciclo vitale. Se le distanze diventeranno troppo grandi questo materiale non potrà essere utilizzato a formare nuove aggregazioni; non potranno più nascere nuove stelle e il freddo e il buio domineranno un universo divenuto statico e inerte, perché non ci sarà più energia sufficiente per sostenere qualunque forma di dinamica. Un’alternativa a questa fine deprimente è l’ipotesi del crollo del vuoto elettrodebole, che comporterebbe un'uscita di scena molto più spettacolare e decisamente più calda. Col termine di vuoto elettrodebole indichiamo l’impalcatura leggera che sostiene la forma delle cose così come le conosciamo e che è dovuta al bosone di Higgs; questa strana trasformazione del vuoto si è realizzata un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang e da allora tutto ha funzionato alla perfezione. Ma la domanda che ci siamo posti è molto semplice: questa impalcatura che gioca un ruolo così importante è stabile? Con nostro grande sorpresa abbiamo scoperto che il vuoto elettrodebole si trova in una condizione di equilibrio metastabile. Cioè potrebbe durare ancora per miliardi di anni ma potrebbe anche rompersi, di colpo e, se questo avvenisse, tutto l’universo si trasformerebbe in una immane bolla di pura energia. Se da qualche parte, in una galassia lontana, una misteriosa catastrofe mettesse in gioco energie mostruose, il vuoto elettrodebole si potrebbe lacerare e la rottura si potrebbe propagare all'universo intero facendo svanire in un attimo il meraviglioso mondo materiale che ci circonda.
Raccontare l’origine vuol dire continuare a tramandare una storia, un modo di fare e di essere. A chi conviene spezzare questo racconto o non tenerne conto?
Il grande racconto delle origini ci colloca in una storia, ci inserisce in una genealogia; così diventiamo anelli di una lunga catena di esistenze, che, spesso, possiamo soltanto immaginare. È una pratica ancestrale che si rinnova ogni volta che si raccontano ai nipotini le storie dei bisnonni, gli episodi buffi o tragici della loro esistenza, il mondo in cui vivevano e si vede la curiosità che brilla negli occhi dei bambini. Spezzare questo racconto o renderlo marginale conviene a chi vuole atomizzare le comunità, romperne i residui legami sociali e culturali, trasformarle in assemblaggio eterogeneo di individui spogliati della loro identità e delle loro radici più profonde. Così essi si trasformano in perfetti consumatori standard, totalmente prevedibili nelle loro scelte di vita e di consumo e quindi perfettamente manipolabili. Le interazioni sociali, la cultura, il gruppo familiare o sociale costituiscono sorgenti di interazioni pericolose, che possono produrre effetti imprevedibili nel comportamento individuale e collettivo. Nell’interazione con la comunità si può diventare altruisti, ci si può sacrificare per gli altri, si possono coltivare sogni o utopie e diffondere idee incompatibili con l’egocentrismo forsennato e la teologia dei consumi che stanno dominando il mondo.
Il nostro mondo va interpretato o ricostruito?
Quando si cambia la nostra visione del mondo, e la si rende più completa e dettagliata, in quello stesso momento si trasforma il mondo. All’inizio sembra che l’utilizzo di nuovi paradigmi non abbia alcuna influenza sulla vita concreta delle persone, ma presto ci si accorge che il nuovo modo di pensare, e di pensarsi, trasforma in profondità tutte le relazioni fra uomini e gruppi sociali, fino a cambiare persino le relazioni con sé stessi. Questo succede, in parte, perché da esso scaturiscono nuove tecnologie, ma soprattutto perché cambia la cultura, in profondità e in tutti i suoi aspetti. Insomma capire e interpretare il mondo in modo nuovo è il presupposto per cambiarlo in profondità, per ricostruirlo dalle fondamenta.
Ha scritto Genesi per rendere consapevole una comunità, per aiutarla a leggere il presente e prepararla alle sfide del futuro. Quale futuro ci attende? La potenza della tecnica va alimentata o frenata?
Il progresso della scienza nell’ultimo secolo è stato impressionante; in alcuni settori, per tempi limitati, ha seguito addirittura ritmi di crescita di tipo esponenziale. Questo ha aumentato enormemente la possibilità di risolvere o mitigare alcuni dei problemi più gravi: terribili malattie, gravissime diseguaglianze, pericolosi disastri naturali e così via. Ma lo sviluppo della scienza e della tecnica non è privo di rischi. Gli squilibri climatici sono forse uno degli esempi più evidenti. Non solo rimane vera la vecchia immagine della lama affilata, che si può usare per tagliare il pane o per fare a pezzi una persona, ma diventano possibili nuove pratiche, francamente orribili, e comunque estremamente pericolose. Alcune dovrebbero essere semplicemente bandite, costruendo attorno ad esse un tabù, una totale proibizione. Faccio alcuni esempi piuttosto ovvii: usare l’intelligenza artificiale per limitare la libertà delle persone, manipolare il patrimonio genetico per creare organismi-chimera, sviluppare nuovi virus letali come armi di distruzione di massa e così via. Lo sviluppo della scienza e della tecnica ci mette continuamente di fronte a scelte perché apre strade sempre nuove che, talvolta, non dovrebbero essere percorse perché troppo pericolose. Gli scienziati non possono essere lasciati soli a decidere. L’intera collettività, consapevole e informata, educata e consigliata da filosofi e umanisti, i nostri migliori esperti di faccende umane, deve partecipare alle discussioni e alle decisioni che ne conseguono.
Perché attribuisce un grande valore all’attività simboleggiante della mente? Le immagini hanno una maggiore potenza dei concetti logici?
Quando si cerca di tradurre in immagine un concetto logico o una legge della fisica si perde sempre qualcosa. Ma quando si riesce ad arricchire, con un’immagine appropriata, l’universo immaginario che ci accompagna, non solo il concetto logico che essa sottintende si fissa stabilmente nella nostra memoria, ma sviluppa altre interessanti relazioni grazie alla sua potenza evocativa.
Vede l’evoluzione come un processo dovuto al caso oppure diretto, programmato e pensato? E se c’è un programma, bisogna necessariamente ipotizzare un programmatore?
Il caso e la necessità rimangono i signori dell’evoluzione. Per spiegarne la dinamica non c’è bisogno di ipotizzare alcun programma, né tantomeno un programmatore.
Qualcuno ha detto che l’ipotesi della casualità evolutiva equivale a sostenere che una scimmia, battendo a caso su una tastiera, alle fine riuscirebbe a riscrivere la Divina Commedia. Concorda?
Argomenti paradossali come questo sono divertenti come battute, ma non ci aiutano a capire. Se anche fossimo in grado di calcolare la probabilità di comporre una grande opera di poesia estraendo lettere a caso, non potremmo paragonare quel numero con la probabilità che l’evoluzione sia stata frutto di elementi puramente casuali. Non conosciamo sufficientemente bene i meccanismi che hanno agito, e neanche siamo in grado di calcolare la probabilità degli eventi catastrofici che l’hanno pesantemente condizionata. Quanti pianeti rocciosi situati nelle zone abitabili di stelle pacifiche ci sono nell’Universo? Quanti hanno acqua, atmosfera, campo magnetico simile alla Terra? Quanti hanno subito trasformazioni simili alle nostre? Insomma anche se pensiamo di essere la Divina Commedia del cosmo, non è proprio il caso di montarci la testa.
Per dirla con Luigi Fantappié, alla base del Tutto si deve per forza ipotizzare una coscienza superiore?
No, non solo questa ipotesi non risulta necessaria, ma si può anche dimostrare che non c’è alcun fenomeno naturale che non si possa spiegare con altri fenomeni naturali. Il gioco a rimpiattino fra il caso e quelle che chiamiamo le leggi della fisica ci permette di dar conto di una miriade di osservazioni. E le molte cose che non sappiamo del nostro universo non sono limiti ontologici. Abbiamo solo bisogno di sviluppare nuovi strumenti che ci permetteranno di fare misure più accurate o nuove teorie che romperanno i paradigmi attuali. La nostra ignoranza, una condizione fattuale e storicamente determinata, è destinata a ridursi col tempo e insieme a rigenerarsi e riprodursi su terreni che oggi ci apparirebbero impensabili. Parafrasando Humphrey Bogart si potrebbe dire: “È il progresso della conoscenza, bellezza”.
Roger Penrose sostiene che la mente abbia anche un’attività di tipo quantistico che, se ho ben compreso, equivarrebbe a ipotizzare che essa, mediante processi intuitivi, possa talora andare molto al di là dei limiti di spazio-tempo e causa-effetto. Giusto?
La meccanica quantistica gioca un ruolo fondamentale in moltissimi processi chimici e biologici che regolano l’attività del nostro corpo. Il cervello non sfugge a questa dinamica. Da qui a immaginare che il meccanismo dell’intuizione sia prodotto da dinamiche di tipo quantistico è un salto troppo azzardato che non mi sento di condividere.
L’eternità della coscienza, sostenuta da Emanuele Severino, è pensabile anche in base a ipotesi matematiche e fisiche? Se la coscienza è elaborazione di informazioni, è ipotizzabile che queste siano eterne?
Ho grande stima di Emanuele Severino, e ho avuto l’onore di argomentare e discutere con lui alcune questioni che hanno a che fare col mio lavoro di scienziato. L’eternità della coscienza è un concetto che tende ad antropomorfizzare l’universo. Non considero saggio attribuire a un oggetto immenso e che segue imperturbabile la sua dinamica, le categorie che stanno a cuore a una piccola scimmia antropomorfa, abitante di un simpatico pianeta roccioso che orbita attorno a una stella secondaria del piccolo braccio di Orione. Il nostro Sole è una fra duecento miliardi di stelle della nostra galassia e la Via Lattea è un’anonima galassia a spirale, una fra le tante, più di cento miliardi, che popolano il nostro universo. Sono sicuro che se si adottasse questo punto di vista alcune delle questioni che sembrano così spinose diventerebbero piuttosto semplici.
Carl Gustav Jung e Wolfgang Pauli hanno ipotizzato una dimensione psico-fisica nel senso di oltre il fenomenico che ha in sé il Tutto, ossia una dimensione totipotente da cui emergerebbero materia e psiche. Tutto ciò è accostabile all’antico concetto di archè dei greci, di Uno, di punto metafisico e sovrapponibile all’ipotesi di universo implicito di Jacob Böhme?
Ho letto qualcosa del carteggio fra Jung e Pauli. Al di là della statura indiscussa dei due personaggi, veri e propri giganti della cultura del ‘900, fra le molte cose interessanti ho trovato anche ingenuità e concetti che oggi appaiono pesantemente datati. Non me la sentirei di difendere alcune di queste concezioni che sono molto popolari fra i seguaci delle culture new age e di alcune filosofie orientaleggianti. Se dovessi accettare la suggestione di pensare in modo moderno all’arché dei greci, al punto metafisico, penserei piuttosto a una struttura materiale, allo stato di vuoto primordiale dalle cui microscopiche fluttuazioni, per meccanismo puramente casuale, ha avuto origine l’universo materiale che ci circonda e di cui noi stessi facciamo parte.
Teilhard de Chardin parla di punto omega, ossia che l’evoluzione miri alla spiritualizzazione dell’esistente, raggiungendo un compimento finale. Ilya Prigogine vede, in prossimità del collasso entropico, un rimbalzo dell’universo verso una condizione di maggiore armonia rispetto all’attuale. Vanno nella stessa direzione?
Mah, confesso il mio imbarazzo ad addentrarmi in un campo che non mi compete. Il rischio di dire cose inappropriate in questo caso cresce esponenzialmente. L’affermazione di Teilhard de Chardin mi sembra tout-court una petizione di principio, un’ipotesi totalmente non dimostrata; pensare poi che ci sia un collegamento con il collasso entropico, cioè la morte termica dell’universo, rende il tutto assolutamente poco plausibile. Un universo in equilibrio termico nei pressi dello zero assoluto sarebbe sicuramente più omogeneo e uniforme dell’attuale ma, riducendosi la probabilità degli scambi di energia, non consentirebbe alcuna forma di vita che potrebbe sviluppare coscienza di sé e costruirsi un’immagine del mondo. Lo spazio per la spiritualità, in queste condizioni, è difficile da immaginare.
Stephen Hawking aveva preconizzato la fine della fisica (salvo ripensarci in seguito), poiché si sarebbe arrivati, prima o poi, alla comprensione di ogni fenomeno. Insomma, la fine della fisica è vicina o lontana?
Stephen Hawking è stato un fisico geniale, che ha cambiato in profondità la nostra comprensione di un’intera famiglia di corpi celesti, i buchi neri. Il suo contributo alla scienza del XX secolo rimarrà nei libri di storia. Quando si è espresso su questioni più generali, spesso ha detto cose giuste, ma talvolta, anche a lui sono scappate affermazioni discutibili, in alcuni casi totalmente sbagliate. Ricordo personalmente che era convinto che il bosone di Higgs non esistesse, al punto di aver scommesso cento dollari che al Cern non avremmo scoperto nulla. Ricordo anche una sua affermazione, stupidamente aggressiva e incredibilmente sciatta, sull’inutilità della filosofia. Questa della fine della fisica la colloco fra le sparate di cui, sono sicuro, in qualche momento si è pentito. Nonostante i grandi progressi degli ultimi cento anni siamo ancora ben lontani dal comprendere alcune delle questioni fondamentali che ci stanno davanti: prima fra tutte le gravità e la sua quantizzazione. E sono sicuro che quando alcune di queste sfide saranno vinte, se ne apriranno altre che faranno impallidire i risultati che abbiamo fin qui raggiunto.
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