Sigmund Freud

“Amo Freud perché non ha mai smesso di cercare”

Davide D'Alessandro

Per Laura Ambrosiano, analista freudiana, il fondatore della psicoanalisi “non si accontentava delle risposte che trovava e continuava a cercare, attraverso i suoi incontri con i pazienti, con i colleghi, con uomini di cultura, con i terribili eventi della sua epoca. Per fare un ottimo analista occorre innanzitutto un ottimo paziente, motivato e desideroso di accostarsi al suo inconscio. Il lavoro psichico è necessario per vivere, per modulare l’impatto che gli eventi hanno su di noi”

 

Che cosa è e a cosa serve l'analisi?

L'analisi è una cura, nessuno la richiederebbe se non avesse l'idea e la fiducia che serva a curare il malessere, il dolore, la confusione e la paura, che siano o meno accompagnate da sintomi. Quando si dice che l'analisi è anche una cultura credo si intenda dire che essa promuove un cambiamento di mentalità, cioè un modo di concepire l'esperienza che era controcorrente all'epoca di Freud, e, per motivi diversi, è controcorrente anche ai nostri giorni. La psicoanalisi propone, e questo è il suo scandalo, che, per vivere abbiamo bisogno di un “lavoro psichico” necessario per modulare l'impatto che gli eventi hanno su di noi, per scegliere, lavorare e amare appassionatamente qualcosa e qualcuno del mondo.  

Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?

Ero molto giovane e stavo male, per me era difficile orientarmi e sentire le mie emozioni e i miei desideri. Poi, certo, nutrivo anche un vago interesse a diventare analista, ma questo è maturato nel tempo.

Come scelse i suoi analisti?

Chiesi ai miei maestri, all'università, precisando, ricordo, che volevo trovare un analista un po' appartato, un po' fuori del chiasso di quegli anni '70-'80. Allora si parlava molto di psicoanalisi, era di moda, come si diceva, e i dibattiti pubblici e il presenzialismo erano intensi anche tra  analisti.

Che cosa occorre per fare un ottimo analista?

Innanzitutto occorre un ottimo paziente! Voglio dire occorre un paziente motivato e desideroso di accostarsi al suo inconscio. Le farò l'esempio di una mia paziente, a me molto cara, che nel corso del primo periodo di lavoro mi disse: “Dovessi metterci degli anni farò di lei l'analista che io ho bisogno che lei sia per me”. In questo senso la parola “ottimo” può riferirsi alla coppia analista-paziente, alla capacità di sintonizzarsi  e di cogliere davvero il dolore profondo, proprio quel dolore di quella persona specifica. Non è tanto importante essere un ottimo analista, ma sviluppare proprio quella capacità di ascolto trasformativo che è utile a quel paziente.

Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?

Forse si, le tante scuole inondano il campo di confusione; ma ho l'impressione che i giovani laureati che incontro nella mia attività di docenza e di supervisione in genere sappiano scegliere bene la scuola di psicoterapia che meglio risponde alle loro domande e curiosità. Il vero problema è che nessuna scuola poi garantisce di trovare lavoro, e che l'offerta di tante scuole può anche comportare tanti psicoterapeuti disoccupati.

Perché ritiene Freud il più convincente dei maestri?

Amo Freud. Perché cercava e non si accontentava delle risposte che trovava e continuava a cercare, attraverso i suoi incontri con i pazienti, con i colleghi, con uomini di cultura, con i terribili eventi della sua epoca.

Per James Hillman siamo chiamati a fare anima. Per lei?

Per me siamo chiamati a investire appassionatamente il mondo e gli altri, in modo creativo e personale.

Chi o che cosa decide quando termina l'analisi?

Mah, qualche sogno: persone che partono, saluti, addii, traslochi; trovarsi d'un tratto a fare i conti di “da quando abbiamo cominciato l'analisi?”; immaginare nuovi progetti o investimenti, e così via. In definitiva si decide insieme, analista e paziente, sulla base di tanti piccoli segnali, prima colti sul piano preconscio e poi, con calma, messi in parole, allora si definisce un periodo di chiusura, un termine, una data e si lavora su quello.

Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?

Dopo tanti anni in cui ho trattato bambini e adolescenti, attualmente preferisco lavorare con persone adulte, che hanno girato la boa dei 50-60 anni. Le situazioni più gravi che incontro sono quelle di un mondo interno tanto intasato da questioni irrisolte da avere tonalità esplosive. Sembra che tante persone, assolti i compiti consegnati: lavorare, sposarsi, avere dei figli, si ritrovino come davanti ad un abisso in cui sono tentati di buttarsi o di buttare tutto quanto hanno fin lì realizzato senza sentirlo come “proprio”. Persone che si sentono, appunto, espropriati di una vita in cui hanno l'impressione di non avere mai scelto davvero, sconosciuti a se stessi. In genere lamentano un senso di vuoto, di ripetitività, di opacità affettiva, talora con sintomi ossessivi, talora con disagi somatici, talora con attacchi di rabbia e di una furia quasi omicida, e sullo sfondo un lutto mai affrontato, segnalato da vaghe fantasie suicidarie.  

Curano di più le parole o i silenzi?

Dipende, dipende, dipende. Una volta un paziente all'inizio di una seduta mi disse: “La ringrazio molto del suo intervento dell'altro giorno, mi ha toccato e mi ha fatto bene”. Mi trovai, tra me e me, a pensare cosa mai gli avessi detto di così illuminante, quando aggiunse: quando lei, dopo il mio racconto sull'incontro con l'amico,  mi ha detto “già”! Monosillabi, silenzio, parole e interpretazioni, la loro efficacia dipende da cosa è in gioco in quel momento con quel paziente, tra noi e quel paziente.

Anche l'analista, come il padre, va ucciso o se preferisce oltrepassato?

Certamente, va lasciato cadere il bisogno che si sente dell'analista, va ripreso e investito il desiderio di procedere da soli, di tenersi dentro l'esperienza analitica come uno strumento che dà la possibilità di continuare a lavorare intimamente sul proprio mondo interno, da soli. 

Come si lavora per far crollare le resistenze?

Come con i resti del ponte Morandi, a Genova, si deve lavorare molto delicatamente, per quanto arrugginite e obsolete possano essere, le resistenze spesso tengono in piedi quello che ancora sta in piedi.

È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?

Entrambe, perché entrambe sono in grande parte inconsce. Per questo abbiamo bisogno dello scambio con i colleghi, delle supervisioni reciproche, di studiare i casi clinici in gruppi di ricerca. Quando si è immersi in un trattamento, nella stanza di analisi, molta ricchezza dello scambio resta inconscia, e questo è anche la sua ricchezza.

Per Freud il sogno è la via regia per accedere all'inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?

Risponderei con le parole di Freud, una buona interpretazione di un sogno, o di uno scambio, suscita nel paziente e nell'analista una sensazione di “intimo convincimento”. Si tratta di una esperienza molto particolare e intensa che si accompagna con la consapevolezza che nessuna interpretazione dice “la verità”, si tratta pur sempre di una candela che illumina qualcosa che prima ci era oscuro, ma illumina solo un angolo e in modo parziale. Certo l'”intimo convincimento” non appare oggi come un criterio scientifico affidabile, proprio per questo, ripeto, è fondamentale un secondo sguardo con cui riflettere sulle analisi in corso: il confronto con i colleghi,  questo momento aiuta a cogliere meglio il senso del nostro operato, a offrire conferme o meno, a trovare delle validazioni da parte del gruppo. Questo è necessario, secondo me, per essere un buon psicoanalista.   

Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?

A volte gli scambi con i nostri pazienti ci dicono qualcosa su di noi oltre che su di loro, il lavoro psichico sul proprio mondo interno non finisce mai, che si sia in analisi o che si sia terminata una analisi, che si sia pazienti o analisti.

Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere una analisi breve?

Esiste il trattamento opportuno e utile per quel paziente in quel momento della sua esistenza. Non è  la durata, o l'assetto di regole a fare una buona analisi, ma la capacità di sviluppare insieme ascolto analitico del mondo inconscio.

L'analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?

Sì, se per libertà intendiamo la possibilità di riappropriarsi della propria esistenza intima e dei propri desideri, risorse e scelte.

Qual è il rischio che si cela dietro l'angolo dell'analista?

Non so, sono tanti i rischi. Credersi possessori di verità assolute, avere sempre qualcosa da dire, trasformare l'analisi in una pratica di routine, senza originalità, immaginare di non avere bisogno degli altri, dei colleghi, di imparare, di confrontarsi....... 

Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?

Buona domanda, Ogden ha ragione, ma non sono mai solo due le persone: la stanza di analisi si riempie di presenze, di personaggi, come direbbe il collega Antonino Ferro, che appartengono alla esperienza del paziente e a quella dell'analista. Non solo, nello spazio clinico si incontrano anche mentalità, idee e ideali, valori, credenze, idiosincrasie di entrambi i partecipanti. Due persone, due mondi e tanti diversi modi di pensare e di intendere l'esperienza e la mancanza. Tornando al lutto, intesa come esperienza dei limiti e della mancanza, per un analista è una dimensione fondamentale della crescita narcisistica dell'apparato psichico e della capacità di relazioni affettive. Questa è la nostra convinzione; un mio paziente, dinanzi ai lutti, è solito rievocare la mentalità della sua famiglia, sintetizzata dal proverbio ripetuto dalla madre: “quando qualcuno muore, un pugno di terra e una messa, e via” (proverbio che sembra risuonare bene con certi aspetti della logica neo-capitalista). C'è molta distanza tra queste due mentalità,  è nello spazio di questa distanza che si può avviare il lavoro psichico necessario per soggettivarsi.

La sfera della sessualità è sempre al centro dell'analisi o c'è altro?

Certamente la psico-sessualità è al centro della psicoanalisi, se con questo termine intendiamo l'energia libidica che ci spinge a esistere, la spinta di ciascuno ad investire con una passione sessuale, libidica, le cose e le persone del mondo. La sessualità di cui parla la psicoanalisi non è solo il fare o non fare l'amore, è piuttosto uno sfondo di pulsioni, un coacervo di fantasie inconsce, di interessi/inibizioni, di desideri/fobie, di pensiero vivo e personale/di placido conformarsi al pensiero corrente.