Psicoanalisi e filosofia, la forza di Lacan
Domenico Cosenza, analista lacaniano, spiega: “Quando lo incontrai attraverso i suoi testi come studente di filosofia mi colpì come lo psicoanalista che più era stato in grado di cogliere gli effetti di sovversione radicale che la scoperta di Freud aveva introdotto nel pensiero occidentale. Man mano che presi a studiarlo a partire dall’esperienza della mia analisi, mi divenne sempre più chiaro che tutto quanto Lacan utilizzava nel campo del sapere, di cui era onnivoro, aveva tuttavia un solo punto di orbitazione: chiarire l’enigma di ciò che accade nell’esperienza di una psicoanalisi. Per fare questo si serviva di tutto quanto potesse essergli utile: dalla filosofia alla letteratura, dalla logica alla topologia. Anzi, i punti più oscuri dei testi di Lacan mi si chiarivano all’improvviso dopo anni a partire da passaggi interni al mio percorso analitico”
Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?
La psicoanalisi è una cura di parola inventata da Freud nel lavoro con le sue pazienti isteriche, in cui al centro è il lavoro di elaborazione del paziente stesso, sostenuto dall’analista. Non si tratta però solo di una terapia, perché alla base del suo funzionamento non c’è solo il voler guarire da una sofferenza, ma anche e anzitutto un desiderio di sapere la causa inconscia del proprio patire. Più il paziente, che Lacan chiama analizzante per marcarne il ruolo attivo nella cura, va alla radice del proprio patire e di ciò che lo causa, più gli effetti terapeutici si presentano, ma come dice Freud “in sovrappiù”, come un effetto conseguente a questo percorso di elaborazione. È una delle ragioni che distinguono la psicoanalisi dal vasto mondo delle psicoterapie.
Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?
Decisi di affidarmi a un analista perché i sintomi che mi facevano soffrire avevano assunto per me un valore enigmatico. Avevo bisogno di sapere che cosa volessero dire, quale fosse il loro senso che mi sfuggiva ma che al contempo intravedevo che avesse a che fare con una mia implicazione che lavorava contro la realizzazione di quanto desideravo. Lo psicoanalista, per quanto ne sapevo all’epoca in cui iniziai l’analisi, da studente di filosofia, incarnava esattamente la figura della cura a cui supponevo un sapere su questa forma di sofferenza enigmatica in cui ero preso, e per la quale avevo intuito di non poter dare la responsabilità ad un problema organico, agli altri o alla sfortuna.
Come scelse i suoi analisti?
Nel mio percorso analitico che durò, con una breve interruzione, 25 anni, ebbi due analisti. Entrambi erano accomunati dal rapporto diretto con Jacques Lacan. Il primo, Carlo Viganò, psichiatra e psicoanalista milanese, fu uno dei primi analizzanti italiani di Lacan, e iniziai a frequentare i suoi seminari quando ero uno studente di filosofia, prima di iniziare l’analisi con lui. Il secondo, Jacques-Alain Miller, curatore dell’opera di Lacan e ispiratore dell’orientamento lacaniano, lo incontrai come analista quando decisi di riprendere l’analisi a Parigi. Entrambi, seppur con stili molto diversi, portavano per me la marca dell’incontro con Lacan, e questa risonanza fu essenziale per me nell’attivazione del transfert analitico che permise l’esperienza con loro.
Che cosa occorre per fare un ottimo analista?
Non credo tanto alla formula “ottimo analista”. Penso a ogni modo che vi siano delle condizioni che permettano di poter funzionare bene come analista per qualcuno che ci domanda un’analisi. In primis, un analista è il prodotto della propria analisi, occorre in altri termini che sia stato analizzato. Questo gli permette di essere avvertito dei propri limiti, cioè delle modalità di godimento che lo caratterizzano in quanto essere parlante nella sua singolarità, di evitare che entrino in cortocircuito nelle cure che conduce. Tuttavia un analista non è mai puro, è sempre imperfetto. Per questa ragione, la seconda condizione essenziale per poter ben funzionare come analista consiste nel sottoporre regolarmente la propria pratica al lavoro della supervisione o controllo da parte di un altro analista a cui suppone un saperci fare con le impasse che l’esercizio della funzione e della posizione analitica comporta. Inoltre, è importante che un analista possa esporre periodicamente la propria pratica pubblicamente nel contesto di una comunità di analisti di cui fa parte, e partecipare al lavoro di questa comunità. La psicoanalisi è a mio parere una pratica troppo delicata, che mette un potere considerevole nelle mani dell’analista, perché possa essere affidata ad un analista isolato, sganciato da ogni riferimento ad una comunità di praticanti di cui partecipa. Per questo Lacan riteneva essenziale per lo psicoanalista il riferimento ad una Scuola. Un analista senza Scuola a mio parere ricade quasi naturalmente alla lunga nella gran parte dei casi nell’appiattimento psicoterapico, oppure in alcuni casi nella posizione del guru di un gruppo più o meno grande di adepti che lo adorano. Essere parte di una comunità analitica non toglie il singolo analista dalla propria solitudine e dalla propria responsabilità, anzi lo invita a dare conto di ciò che fa esponendosi con gli altri suoi colleghi sulle impasse e gli enigmi che incontra nella sua esperienza di praticante.
Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?
La pluralità delle Scuole psicoanalitiche è l’effetto di molteplici fattori, da rintracciarsi nella storia del movimento psicoanalitico e dei suoi protagonisti principali, nel loro modo di rapportarsi con l’eredità del testo di Freud. È un fatto che questa eredità ha preso vie diverse, da taluni è stata misconosciuta; da altri ripresa e rielaborata in forme tra loro eterogenee ma sempre riferite alla matrice freudiana. È un fatto che dobbiamo assumere: la psicoanalisi non si trasmette come la scienza in modo tendenzialmente uniforme, ma per filiazioni. Questo non è né un bene né un male di per sé. Marca il legame ma anche la differenza tra il discorso analitico ed il discorso della scienza. Per un giovane interessato alla formazione analitica questo implica un passaggio in più da compiere rispetto ad un generico interesse verso la psicoanalisi. Solitamente diventano decisivi a questo livello gli incontri reali con degli analisti in cui il giovane s’imbatte, e gli effetti che questi incontri producono su di lui, per orientarne la decisione.
Perché ritiene Lacan il più convincente dei maestri?
Quando incontrai Lacan, attraverso i suoi testi come studente di filosofia, mi colpì come lo psicoanalista che più era stato in grado di cogliere gli effetti di sovversione radicale che la scoperta di Freud aveva introdotto nel pensiero occidentale. Man mano che presi a studiarlo a partire dall’esperienza della mia analisi mi divenne sempre più chiaro che tutto quanto Lacan utilizzava nel campo del sapere, di cui era onnivoro, aveva tuttavia un solo punto di orbitazione: chiarire l’enigma di ciò che accade nell’esperienza di una psicoanalisi. Per fare questo si serviva di tutto quanto potesse essergli utile: dalla filosofia alla letteratura, dalla logica alla topologia. Anzi, i punti più oscuri dei testi di Lacan mi si chiarivano all’improvviso dopo anni a partire da passaggi interni al mio percorso analitico. Questo spiega un tratto interno allo stile ed all’insegnamento di Lacan: dietro al pensatore che entra in dialogo ai più alti livelli con le discipline di cui andava interessandosi lasciando il segno su di loro – dalla filosofia alla critica letteraria – è all’opera un lavoro rigoroso e costante rivolto in modo precipuo agli analisti e alla loro formazione.
Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?
Come analisti siamo chiamati a incarnare, nel transfert, l’oggetto che causa il desiderio della persona che si rivolge a noi, per tutto il tempo che gli è necessario prima che possa individuarlo, isolarlo, svuotarlo di tutte le eco identificatorie che lo hanno alimentato, e alla fine assumerlo per ciò che è: un nucleo di non-senso, celato dal mito fantasmatico costruitosi attorno alla propria persona, attorno a cui ha preso forma il cuore del proprio modo di soddisfarsi. Arrivati a quel punto, dopo avere incarnato per lungo tempo per l’analizzante il luogo del supposto sapere sulla sua verità, possiamo iniziare a decadere da quel luogo ed a ridurci ad uno scarto che permette all’analizzante di separarsi da noi, avendo esaurito il nostro compito. L’analista deve dunque saper dire sì alla domanda del paziente quando è una domanda d’analisi, e deve saper accettare di decadere quando il suo compito si è esaurito.
Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?
Il termine dell’analisi s’impone ad un certo punto del percorso, e quando non è un’interruzione legata ad impasse della cura – acting outs o passaggi all’atto – è legata ad un certo grado di soddisfazione raggiunta, che conduce l’analizzante a decidere in analisi che per lui è abbastanza. L’analista non si frappone generalmente a questa decisione – lascia semmai una porta aperta -, se non quando è il gioco la formazione di un analista, per la quale occorre che l’analisi punti alle estreme conseguenze del percorso analitico, trattandosi del percorso di qualcuno che in analisi ha sperimentato una mutazione nella sua economia desiderante che potrebbe condurlo a incontrare come analista la domanda d’analisi di altri soggetti. Anche in questi casi, è il lavoro analizzante a decidere il momento della conclusione. L’analista, che lo ha reso possibile e sostenuto fin dall’inizio, arriva a prendere atto della sua conclusione.
Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?
Direi che la questione non è tanto nosografica, piuttosto riguarda il nucleo duro della nevrosi, che rende ogni caso, quando si giunge a quella dimensione, un caso ‘grave’ in un certo senso. Si tratta di quella dimensione dell’analisi in cui abbiamo a che fare con il godimento reale che lega il soggetto alla propria ripetizione sintomatica, e che Freud per primo, da Al di là del principio di piacere, individuava come un tratto autodistruttivo interno alla pulsione. E ciò di cui anche il soggetto in analisi, nonostante i suoi sforzi per analizzare quanto gli accade, non ne vuole sapere niente. Risvegliare il soggetto da questa inerzia libidica, alleggerirlo nella sua vitalità, aiutandolo a trovare la via per lui più praticabile in questa direzione, è la difficoltà maggiore di un’analisi.
Curano di più le parole o i silenzi?
I due sono come il recto ed il verso della medesima operazione, non possiamo separarli astrattamente. Tuttavia, l’analista è chiamato a dare massimo risalto alla parola dell’analizzante, e per questo il silenzio gli è assolutamente congeniale. Non è facile tacere, perché la cosa più naturale è parlare, soprattutto quando qualcuno ci domanda qualcosa. Ma l’analista sa per formazione che la parola che realmente conta non è la sua ma quella dell’inconscio dell’analizzante stesso, che non emerge se il suo spazio di apparizione viene occupato dalla parola di un altro. Per questo l’analista è chiamato a fare economia delle sue parole, perché possano avere, quando decide di usarle, la risonanza di cui necessitano per andare a segno, come accade in ogni vera interpretazione.
Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?
L’analista non è il padre, anche se nel transfert sicuramente incarna per l’analizzante in vari momenti dell’analisi anche il proprio padre. L’analista in ultima istanza incarna l’oggetto perduto causa di desiderio del soggetto, ma questo diventa più chiaro per l’analizzante in una fase molto avanza dell’analisi, nella quale le identificazioni agli altri fondamentali della sua vita, tra cui senza dubbio l’identificazione al padre, vengono messe al setaccio e perdono la presa che avevano prima su di lui. La posizione analitica in questo senso non si risolve affatto in una posizione paterna, l’analista è già al di là del padre perché non incarna l’universalità della legge ma quanto di più singolare marchia il soggetto. A questo però ci si può arrivare nell’analisi solo dopo un certo percorso, quando abbiamo colto i limiti della legge che il padre ha incarnato per noi, ed entriamo in un territorio che è al di là del padre.
Come si lavora per far crollare le resistenze?
Non lavoriamo per far crollare le resistenze. L’unica resistenza vera, diceva Lacan, è quella dell’analista a occupare la sua posizione. Se non ci mettiamo di traverso con il nostro Io il paziente fa il suo lavoro come può.
È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?
Ciò che conta nell’analisi è il transfert. Il controtransfert ha un’esistenza immaginaria e si presenta ogniqualvolta l’analista rimane incagliato sul piano identificatorio a un significante del discorso dell’analizzante, che evoca in lui una propria risonanza fantasmatica in cui è ancora in parte preso. Questa esperienza lo fa soffrire effettivamente, è qualcosa che accade nell’esperienza di ogni analista, ed è per questo che è essenziale la supervisione o un supplemento di analisi, che gli permetta di disidentificarsi dal punto del discorso del paziente a cui si è alienato, per poter ritrovare la propria posizione simbolica nel transfert.
Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?
Senza dubbio l’interpretazione, tra cui quella del sogno che è già comunque di per sé un’interpretazione che proviene dall’inconscio del sognatore, si rivela tale solo a posteriori, per gli effetti di mutamento che produce nel discorso dell’analizzante e nella sua vita. Non esiste buona interpretazione in sé prima dell’esperienza dei suoi effetti di mutamento nel soggetto analizzante.
Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?
Senza dubbio ho faticato di più con il mio inconscio. Si tratta comunque di due fatiche diverse. Il lavoro analizzante è dilemmatico, è il travaglio di un soggetto diviso alla ricerca di ciò che effettivamente desidera e che per varie ragioni gli sfugge. Il lavoro dell’analista consiste nel rendere possibile e sostenere il lavoro analizzante, e per poterlo fare occorre svuotarsi nei limiti del possibile per poter accogliere ed incarnare per ogni analizzante l’oggetto della propria questione. In questo senso, nella posizione di analista funzioniamo più come ‘oggetto’ che come soggetto. Questo almeno è quanto pensavano Freud e Lacan, e l’orientamento a cui mi sono formato.
Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?
Non esiste un’analisi breve. Può esistere l’incontro con un analista che può in un ciclo d’incontri avere un effetto di rettifica e di sensibilizzazione all’inconscio. Ma questa non è un’analisi, può rivelarsi semmai un preliminare all’avvio di un’analisi, anche diversi anni dopo. Ma parlare di un’analisi mette in campo un processo la cui complessità non permette di saltare dei passaggi obbligati che, per quanto si possa viaggiare velocemente, richiedono i loro tempi, e soprattutto una sospensione del tempo del calendario. Il tempo che conta in un’analisi è il tempo dell’inconscio, che non si misura con un metro quantitativo e non può essere predeterminato. Riguardo al costo, ciò che conta per fare un’analisi è che il soggetto paghi un prezzo per lui sostenibile ma che non gli sia indifferente. In questo senso, oltre alla variabilità senza standard sul tempo va aggiunta, nella prospettiva di Lacan, quella sul denaro.
L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?
È una definizione che richiede di essere completata per evitare di essere fuorviante. La ‘libertà’ a cui si giunge attraverso l’analisi è l’effetto di un lavoro che arriva a isolare ciò che causa la nostra modalità di soddisfazione. Isolarla, riconoscerla, permette di alleggerirla del suo automatismo di ripetizione, ci permette dunque di esserne un po’ meno schiavi, di poterne essere avvertiti. Non è quindi tanto l’ideale della liberta ciò che un’analisi realizza. È piuttosto l’isolamento e l’assunzione di ciò che ci muove a renderci in un certo senso più liberi di acconsentire a ciò che siamo, decidendo volta per volta se assecondare o meno questo nostro orientamento desiderante.
Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?
Direi che il pericolo maggiore è quello di prendersi effettivamente per l’analista, trasformando la funzione che cerchiamo d’incarnare per quanto possibile degnamente in seduta in uno status acquisito in modo definitivo, un’identificazione ad una professione. Occorre rispetto a questo rischio che teniamo sempre presente che, anche se abbiamo finito la nostra analisi ed esercitiamo la nostra pratica, abbiamo bisogno come l’aria di esercitare la nostra funzione analizzante, che ci permette di tenere vivo il nostro rapporto con il nostro inconscio. A questo servono la supervisione e l’appartenenza a una comunità analitica, in cui siamo tutti in posizione di analizzanti dell’enigma della scoperta freudiana. E a questo invita anche Freud quando consiglia periodicamente di riprendere delle tranches di analisi agli analisti sperimentati.
Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?
La seduta analitica non è mai un incontro a due, c’è di mezzo per ciascuno dei due l’inconscio. Si è sempre dunque almeno in tre, se non in quattro. L’analista, in funzione di oggetto, cerca nei limiti del possibile di tenere fuori dalla seduta il proprio per fare posto a quello dell’analizzante di cui è chiamato ad incarnare le più importanti manifestazioni. L’installazione del transfert sancisce l’emergenza di questa dimensione terza che non si riduce al dialogo intersoggettivo tra analista e analizzante, ma chiama in causa l’inconscio come supposto sapere ciò che i sintomi dell’analizzante vogliono dire. Alla fine dell’analisi tale supposto sapere cade, e ciò che resta come terzo è l’oggetto parziale che ha funzionato per l’analizzante come causa del suo desiderio, e che l’analista ha incarnato fino alla fine dell’analisi.
La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?
Senza dubbio l’analisi ha al suo centro il desiderio inconscio in quanto sessuale. È il nucleo della scoperta di Freud. Il fatto di avere colto nella sessualità umana un’irriducibilità all’universale della biologia, e nelle condizioni di godimento di ciascun essere parlante una costruzione singolare strutturata a partire dal linguaggio e dall’azione del significante sul corpo, rende tuttavia la sessualità umana dopo Freud una questione enigmatica per ciascuno. È su questo punto che s’inserisce la scoperta della psicoanalisi dinanzi ad un sintomo, quello isterico, in cui il soggetto gode sessualmente per procura, senza saperlo. L’analisi mostra che al cuore della sessualità dell’essere parlante c’è un impossibile. Qualcosa che Freud si avvicinava a dire parlando della rocca della castrazione e del Penisneid, e che Lacan riformulerà nella sua celebre formula: non c’è rapporto sessuale. Ciò che l’analisi ci mostra è che in fondo il vero partner del soggetto è l’oggetto parziale che causa il suo desiderio; oggetto asessuato, di cui i partner concreti nella sua vita sono delle incarnazioni che ne prendono il posto nelle vicissitudini della vita amorosa.
Il Foglio sportivo - in corpore sano