Giuseppe Di Chiara, curare con la psicoanalisi
A colloquio con l’analista freudiano di lungo corso, che spiega: “L’esperienza analitica ha mostrato come lo scomporre e il conoscere le parti della psiche umana, in un contesto specifico che è quello della situazione analitica, consente nuovi rapporti tra le istanze psichiche, che conducono alla cura di alcune malattie della mente, prima di tutto le nevrosi. Gli elementi principali della qualità dell’analista sono il buon esito della sua analisi con il suo seguito di autoanalisi e il buon apprendimento nella sua formazione. La prima deve avergli consentito l’affrontamento e la maturazione evolutiva del complesso di Edipo, e la sua capacità di continua regolazione dello stesso. Il secondo deve avergli assicurato la capacità di continuare ad apprendere nel gruppo di lavoro di cui fa parte”
Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?
La psicoanalisi è una disciplina scientifica che ha per oggetto le parti inconsce della mente umana, le loro funzioni, operazioni e rapporti con l’intero apparato psichico. Venne iniziata da Sigmund Freud più di un secolo fa. La psicoanalisi sta alle scienze psicologico-psichiatriche così come la fisica delle particelle subatomiche sta alla fisica dell’atomo. La psicoanalisi analizza e scompone la psiche dell’uomo mettendo in evidenza l’esistenza di numerose parti e strutture. L’esperienza analitica ha mostrato come lo scomporre e il conoscere le parti della psiche umana, in un contesto specifico che è quello della situazione analitica (setting analitico), consente nuovi assemblamenti, nuovi rapporti tra le istanze psichiche, che conducono alla cura di alcune malattie della mente, prima di tutto le nevrosi.
Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?
Più di cinquanta anni fa ero indeciso sulla scelta del lavoro. Studi classici, una laurea in medicina, una specialità medica, e l’inizio di un lavoro di ricercatore in un istituto medico-biologico non mi sembravano abbastanza. Avevo già incontrato il Trattato di psicoanalisi di Cesare Musatti e così decisi di affrontare la formazione in psicoanalisi, il cui primo gradino è l’analisi dello stesso candidato, dopo avere superato i colloqui di ammissione alla formazione. Così mi cercai il mio analista.
Come scelse i suoi analisti?
Nella città dove abitavo allora, Palermo, vi erano stati due psicoanalisti. La signora Wolff Stomersee, di origini baltiche, sposata con il principe di Lampedusa (l’autore del Gattopardo) e formatasi come psicoanalista nel primo istituto di psicoanalisi, quello di Berlino, fondato da Karl Abraham e Francesco Corrao, che faceva parte della importante seconda generazione di psicoanalisti italiani. Importante perché assicurò lo sviluppo della psicoanalisi in Italia dopo il piccolissimo gruppo della prima generazione. Si tratta degli allievi di Musatti, Servadio, Perrotti, la principessa di Lampedusa e pochi altri. La storia di questo periodo è stata oggetto di diverse pubblicazioni. Io ne ho scritto insieme allo storico Nestore Pirillo in Conversazione sulla psicoanalisi nel 1997. Vi erano stati, ho detto, perché la principessa si era da poco trasferita a Roma. Quindi vi era in città solo Corrao che, dopo un colloquio di inizio, scelsi con molto piacere. Naturalmente ero allievo di uno dei tre Istituti di formazione in psicoanalisi che la Società Psicoanalitica Italiana aveva nel paese, e segnatamente dell’Istituto di Psicoanalisi diretto da Nicola Perrotti. Ammesso alla frequenza dei corsi di formazione e alle supervisioni dei primi casi clinici, andavo regolarmente a Roma. Scelsi come supervisori la Dott.ssa Lidia Gairinger e il Dott. Giulio Cesare Soavi, analisti di grande esperienza, ai quali aggiunsi, come supervisione in più a quelle prescritte, quella con la Dott.ssa Adda Corti, rientrata appena da Londra con tutte le novità dell’apporto alla psicoanalisi di Melanie Klein e del suo gruppo. Mi sono trovato molto bene con tutti e tre e l’esperienza di supervisione mi ha accompagnato e aiutato nell’intero corso del mio lavoro, sia clinico, che di insegnamento, che ho concluso nel maggio del 2018.
Che cosa occorre per fare un ottimo analista?
Nulla, non c’è nulla che possa fare un ottimo analista. Al massimo possiamo ottenere un analista “sufficientemente buono”. Meltzer diceva che si sarebbe dovuto mettere insieme talento e vocazione. Ma non è così semplice. Talento e vocazione per che cosa? Prima di tutto per volere cercare. Questa “epistemofilia” è il contrassegno di Edipo. Egli volle sapere, a tutti i costi. Quindi l’analista deve essere disposto a sapere, anche quando ciò genera dispiacere. Naturalmente c’è anche tanto piacere in molte scoperte. In questo senso la pulsione a sapere è condivisa dalla psicoanalisi con le scienze naturali. In analisi la scoperta avviene attraverso lo studio delle “orme” (è il titolo dei volumi che raccolgono gli scritti di Corrao), lasciate dall’inconscio nei sogni, negli atti mancati, nelle battute di spirito, nel transfert, e - ci si aspetta - anche nelle libere associazioni - nel loro studio e nella loro interpretazione. Questo è il secondo ed essenziale requisito. Scoprire e interpretare. L’analista deve avere dunque anche doti di interprete. Interprete, però, non va inteso nel senso di chi comprende un testo, ma di chi riesce anche a “rappresentarlo”, entrando nel personaggio o nella situazione, un poco come un attore. E non è da tutti fare tutte le parti che la vicenda analitica richiede, madri e padri, figli, perseguitati e persecutori, arroganti e pavidi, e ogni altro ruolo che ogni volta la sceneggiatura prevede. Tutto ciò sotto la guida di un analista-regista, che assegna i ruoli e ne controlla la buona interpretazione. L’avversione dell’analista a svolgere il ruolo richiesto può fare insorgere difficoltà, la principale delle quali si chiama “controtransfert”. Esistono dispositivi tecnici idonei per muoversi sulla scena analitica. Gli elementi principali della qualità dell’analista sono il buon esito della sua analisi con il suo seguito di autoanalisi e il buon apprendimento nella sua formazione. La prima deve avergli consentito l’affrontamento e la maturazione evolutiva del complesso di Edipo, e la sua capacità di continua regolazione dello stesso. Il secondo deve avergli assicurato la capacità di continuare ad apprendere nel gruppo di lavoro di cui fa parte.
Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?
Se per scuole non si intendono centri clinici e gruppi di lavoro teorico che si distinguono nell’ambito di una disciplina e attorno a una o più personalità di valore, ma sottogruppi organizzati che si caratterizzano per approcci abbastanza diversi con pochi scambi con gli altri e una forte marcatura del proprio profilo, allora queste “scuole” confondono. Escludo l’esistenza di “molte psicoanalisi”. La psicoanalisi è una disciplina il cui profilo, soprattutto oggi con l’esperienza che ne abbiamo, è abbastanza ben definito. Trovo privo di senso e confondente che possa esistere una psicoanalisi non freudiana e credo che sia superfluo parlare di una psicoanalisi freudiana. Esistono, sì, le scoperte di Freud, alcune stabilmente incastonate nel patrimonio di conoscenze, altre decadute o desuete, ma sempre per motivi scientificamente documentabili. Io mi sono sempre ritenuto uno psicoanalista, e basta. Per essere tale devo conoscere bene Freud ma non solo. Newton e Einstein appartengono alla Fisica tutti e due e senza dubbio.
Perché ritiene Freud il più convincente dei maestri?
Ho trovato, al principio, e ne ho avuto via via conferma, nel corso del lavoro che la psicoanalisi così come praticata sulla scia di Freud è una disciplina scientifica, con i suoi metodi, la sua teoria, il suo giusto rigore di una scienza. È questo che me l’ha fatto scegliere e mantenere.
Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?
Non conosco l’esatto significato dell’espressione di Hillman “fare anima”. So che la psicoterapia negli scritti di Freud è chiamata Seelentherapie, che vuol dire cura delle anime.
Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?
Lo decide il paziente, in ogni caso, lo propone l’analista, quando ritiene che sia il momento. Il più delle volte lo decidono insieme e insieme concordano quanto tempo darsi da quel momento alla conclusione, che è una fase di straordinaria importanza e impegno emotivo per entrambi. Esistono indicazioni abbastanza precise per prendere questa decisione. La prima è l’evidenza che il paziente mostra di avere fatto proprio il metodo analitico, d’essere capace di impiegarlo per capirsi e regolare il proprio apparato psichico. Questo coincide con la trasformazione sintomatica, con una vita psichica di qualità diversa e migliore di quella con la quale si era presentato alla cura. Questo nel migliore dei casi. Esistono molte altre varianti di conclusione, determinate da molteplici motivi. Conclusioni per esempio, con risultati parziali, che al paziente bastano, o che mostrano di non potere facilmente ulteriormente crescere, e tante altre forme di conclusione su cui esiste molta letteratura specializzata.
Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?
La forma più grave è quella nella quale il paziente vuole essere liberato dai sintomi, ma nello stesso tempo non vuole modificare il proprio assetto psichico, in alcuna maniera. Egli fa questo per dei motivi che non conosce e che è compito dell’analisi scoprire e riuscire a modificare. Il paziente non può permettersi alcuna trasformazione. Sono percorsi lunghi e difficili e sono situazioni indipendenti dalle diagnosi psichiatriche e quindi di più difficile previsione.
Curano di più le parole o i silenzi?
Senz’altro sono le parole quelle che curano. I silenzi sono importanti se sono “eloquenti”. Abbiamo imparato molto sui silenzi nei quali si sogna anche senza dormire, abbiamo imparato molto dall’analisi dei bambini e dagli studi sul preverbale, ma poi deve esserci la parola, che apre la strada alla coscienza.
Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?
Questa è una formula che piace ripetere, ma le cose non sono così. Il paziente deve accettare che, in quanto bambino, non può competere con il padre. Può invece crescere e, a sua volta, diventare padre. Ma, si badi bene, il figlio non sarà come il padre. Egli dovrà disporre di una rappresentazione del paterno che sappia valorizzare l’esperienza fatta, prima e soprattutto nel corso dell’analisi, l’esperienza psichica del paterno, che non è fondata sulla percezione del padre reale soltanto, ma da questa, congiunta con i flussi pulsionali, libidici e aggressivi, che la accompagnano, e con la loro regolazione.
Come si lavora per far crollare le resistenze?
Mettendo in evidenza i motivi di esse, le angosce sottostanti, e, vivendole con i pazienti, modificandole fino a quando le resistenze diverranno inutili e ingombranti e saranno abbandonate e sostituite da sistemi di regolazione nelle interfacce tra le istanze psichiche.
È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?
Quella del transfert. Le difficoltà prodotte dal controtransfert discendono da problemi nell’assetto interiore dell’analista. Egli ha già fatto una lunga analisi e dovrebbe disporre di una competenza autoanalitica. Dovrebbe conoscere i propri “punti deboli”, la sua propensione a trovarsi meglio in certe situazioni, piuttosto che in altre, e, informato da tutto questo, sapere proteggere l’analisi dalle sue reazioni personali. (Sia ben chiaro: io considero che la risposta dell’analista non sia di norma il controtransfert, ma la “competenza psicoanalitica”). Il transfert viene da una persona, il paziente, il cui territorio psichico è, all’inizio, del tutto sconosciuto. E inoltre le uniche informazioni vengono dallo stesso paziente, e sono quindi filtrate dai sistemi difensivi, almeno fino a quando l’analista e l’analisi non vengano in contatto con i nuclei più sani del paziente, che desiderano la cura. Tale contatto può e dovrebbe esserci fin dal principio, ma è fragile e nascosto. Questo non vuol dire che il controtransfert non sia un complicato problema. Ma è anche vero che abbiamo imparato ad affrontarlo e ad utilizzarlo, soprattutto scoprendo, dietro la reazione controtransferale dell’analista, quale sia il flusso transferale del paziente, quando ci riusciamo.
Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?
Il sogno rimane la via regia, è l’“orma” più evidente che lascia l’inconscio. Ed è possibile avere conferma della qualità dell’interpretazione, approfondendone il significato, ampliandolo, modificandolo, talvolta correggendolo, nel corso dell’analisi, e, talvolta, anche dopo l’analisi.
Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?
Con quello degli altri, perché io sono uno, per quanto il mondo psichico sia vasto e si ampli nel corso della vita; ma i pazienti, per quanto in analisi si contino nell’ambito delle poche decine, nel corso di una vita professionale sono sempre molti di più. E poi io con il mio inconscio ci sono sempre, con quello dei pazienti qualche ora per settimana.
Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?
No, l’analisi non può essere breve. È evidente che il tempo svolge una precisa funzione, il tempo in analisi. In questo senso l’analisi è e deve essere in controtendenza con gli orientamenti sociali contemporanei, come seppe esserlo per tanti altri aspetti nella Vienna in cui mosse i primi passi. Il paziente che viene in analisi deve compiere un passo incredibile per il gruppo sociale, un passo scandaloso: ma come! Vai per cinquanta minuti in analisi più volte nella settimana più il tempo per andarci e tornar via, e per diversi anni! Uno scandalo nella società iperaccelerata d’oggi. Così come è in controtendenza lo stabilimento degli onorari degli analisti .
L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?
È incompleta, anche se bella. Perché l’analisi è anche un cammino per la formazione di quelle strutture mentali che devono garantire la libertà, quella possibile nel nostro apparato psichico, proteggendola dal suo cattivo uso.
Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?
Se ben comprendo la domanda, il rischio maggiore nell’angolo dell’analista è che egli si dimentichi d’essere uno strumento per la cura del paziente e di dovere dunque essere disposto a fare le parti che la sceneggiatura dell’interiorità del paziente ogni volta gli assegna. Deve essere l’attore dei personaggi dei pazienti. Diversamente corre il rischio che è umoristicamente raccontato nel finale di Harvey di Mary Chase.
Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?
No, non sono due. Sono una piccola folla che si ritrova insieme nella stanza dell’analisi, che può farci pensare a un set cinematografico, o teatrale.
La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?
La sfera delle pulsioni è sempre al centro dell’analisi, se si leggono i normali protocolli delle sedute di analisi. Non sempre è data loro dagli analisti l’importanza che prima era riconosciuta a prima vista. Potevamo aspettarci un progresso nei vissuti della sessualità, la più rimossa e insieme ruggente all’inizio della storia dell’analisi. Ma i fatti ci dicono che, al di sotto di un approccio maniacale e orgiastico, la sfera sessuale continua a essere la fonte di fantasmi angosciosi. Assistiamo troppo spesso a episodi estremi caratterizzati da angosce persecutorie e deliranti. I processi di evoluzione trasformativa delle pulsioni, i “destini delle pulsioni” - scriveva Freud -, sembrano essersi inceppati. Stessa cosa dobbiamo dire dell’aggressività.
Il Foglio sportivo - in corpore sano