Antonello Sciacchitano, l'analisi infinita
Per lo psichiatra e psicoanalista di formazione lacaniana, non c’è scampo: “L’analisi non si abbrevia: i numeri pari sono infiniti non meno degli interi e come i dispari. Non esistono rapporti quantitativi nell’infinito. Il termine usato da Freud, ma non adeguatamente sviluppato, è proprio il termine matematico, unendlich, ‘infinito’, malauguratamente tradotto ‘interminabile’. La psicoanalisi è infinita perché l’oggetto causa del desiderio, l’oggetto a, come lo chiama Lacan, è infinito nel senso matematico del termine. Lacan diceva che è originariamente perduto. Forse voleva dire che non è concettuale, proprio come l’infinito”
Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?
L’analisi freudiana – delle altre non ho esperienza diretta – è una ricerca sull’inconscio, cioè sul sapere che non si sa di sapere e che ci fa agire in modo incongruo, rispetto ai fini che ci prefiggiamo. L’analisi mira a correggere almeno in parte tali incongruità. Si va in analisi per cambiare vita, illudendosi che sia una terapia.
Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?
Perché non riuscivo a integrarmi in nessuna struttura lavorativa privata o pubblica. Prima o poi entravo regolarmente in conflitto, anche non volendo, con la direzione della struttura, pur non essendo né un contestatore né un rivoluzionario. Quando si parla di Edipo non si sbaglia di molto; si rischia solo di dire un’ovvietà. Esistono anche ovvietà tragiche. Il mio caso fu semi-tragico, quasi comico. Si va in analisi anche per affrontare l’insopportabile lato comico della vita. L’analisi insegna l’ironia.
Come scelse i suoi analisti?
Ai miei tempi, chi aveva un’ideologia da difendere – comunista o cattolica – sceglieva Jung. Freud era considerato un devastatore delle fedi. Poi venne di moda Lacan. Io ero di formazione cattolica. Scelsi un’analista lacaniana francese, anche perché era da poco arrivata in Italia e non aveva coda d’attesa. Avevo fretta di cambiar vita. Lacan scrisse belle pagine sulla funzione soggettiva della fretta, ma lo scoprii dopo.
Che cosa occorre per fare un ottimo analista?
Non esiste l’ottimo analista. Esiste l’analista che in certe situazioni se la cava, neanche lui sa spesso come e perché, e porta l’analizzante ad amare il comune lavoro d’analisi, ma in altre fallisce; allora l’analizzante chiude con l’analisi, spesso sviluppando una paranoia contro l’analisi (è la paranoia post-analitica secondo Lacan). Le seconde eventualità sono molto più frequenti delle prime.
Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?
Le scuole né aiutano né confondono. Le scuole sono necessarie perché vanno incontro alla diffusa volontà d’ignoranza del popolo. Il popolo, non solo quello populista, vuole essere ingannato, diceva un famoso Segretario di Stato Vaticano. “Allora inganniamolo”, ribatteva il suo Papa, seguito dai moderni arruffapopoli. Le scuole e i maestri servono a non pensare; educano a pensare in modo conformistico, cioè ortodosso, rispetto alla dottrina della scuola. L’ortodossia non pensa perché è il pensiero giusto, di cui è impensabile l’alternativa. Pensano meglio certi pensieri “sbagliati”, a esempio i cosiddetti lapsus freudiani.
Perché ritiene Lacan il più convincente dei maestri?
In ventiquattro anni di Seminari Lacan ha formulato un signor pensiero, criticabile ma “signorile”, il contrario di “popolare”. Il suo fu un vero “discorso del padrone”, per usare la terminologia lacaniana. Il termine francese, più appropriato della traduzione italiana, è: discours du maître. Lacan fu un maestro.
Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?
Non uso il riferimento junghiano all’anima. L’anima è uno strumento di asservimento al padrone. Ci scegliamo l’anima che va bene a lui, come un vestito alla moda. Va precisato che l’anima è un riferimento freudiano prima che junghiano. Ogni venti pagine sulle settemila delle sue Gesammelte Werke Freud scrive “Seelenleben”, “vita dell’anima”. Freud fu più che un padrone; fu un “conquistador”, come scriveva all’amico Fliess all’alba del ‘900. Conquistò l’inconscio e ci piantò la propria bandiera, che oggi vacilla. Il vitalismo psichico freudiano ha fatto epoca, come quello di Hegel, Heidegger, Bergson, Sartre. E, perché no? Anche quello di Marx.
Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?
Decide l’analizzante, quando ha capito come funziona la sua “anima”. La difficoltà di decisione è che l’anima vera è collettiva e la sua conoscenza non si esaurisce se l’analisi rimane a livello individuale.
Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?
Il termine “grave” presuppone l’approccio medico. Tra chi fa domanda d’analisi, quindi escludendo gli invii per psicoterapia, senz’altro l’isteria è la forma di vita più compromessa. Oggi l’isteria è cancellata dal discorso dominante; a cominciare dal DSM è soppressa, ma esiste e chiede analisi, anche se non è più di moda. Si parla di attacchi di panico o di disturbi alimentari, pur di non parlare di isteria. Perché? Perché l’isteria è l’autentica contestatrice del discorso del padrone, ma è inevitabilmente votata al fallimento, non avendo il senso del collettivo. Una via che gli psicoanalisti potrebbero percorre è rendere politico, cioè collettivo, il discorso dell’isteria. Ma generalmente gli psicoanalisti preferiscono tornare a lavorare sotto padrone, all’interno del discorso medico. Si sentono più protetti. Allora trattano l’isteria in termini cognitivisti. Ma l’isteria la sa più lunga di loro. La mia scommessa è che sul lungo periodo vincerà lei.
Curano di più le parole o i silenzi?
Non ci sarebbero le parole se non ci fossero i silenzi. Il mio gatto non parla perché non sa stare in silenzio: miagola. Curare è anche saper ascoltare con pazienza certi rumorosi silenzi dell’analizzante, spesso diretti “contro” l’analista.
Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?
Per carità, basta con questa propaganda paternalistica nazional-popolare. L’analista è un oggetto, non è una persona; è l’oggetto che sostiene l’analisi, ripresentando al soggetto la causa del suo desiderio. Nulla di più. Il resto è becero antropomorfismo, fatto di intersoggettività e altre amenità. Non si può uccidere un oggetto come si uccide un uomo. L’oggetto può essere messo da parte o ci si possono mettere sopra altri oggetti per tentare una costruzione. Il riferimento al padre ricorre spesso, non dico di no, ma è inessenziale. Lo pompano certi analisti per “casciar l’articul”, come si dice a Milano, e procacciare pazienti. Chi non ha avuto un padre debole o ritenuto tale?
Come si lavora per far crollare le resistenze?
Di quali resistenze parla? Delle resistenze ad accettare l’edipo o il complesso di castrazione? Queste sono mitologie freudiane che valgono quel che valgono – non molto. La vera resistenza non è diretta contro i miti freudiani della psicoanalisi; contro i miti non ha senso resistere, perché sono narrazioni metaforiche, regolarmente antropomorfe, di quel che dovrebbero spiegare. La vera resistenza è diretta contro la scienza moderna, sin dai tempi del processo a Galilei. Il popolo resiste alla scienza, come dimostrano le campagne anti-vax. È una resistenza intellettuale. Il popolo accetta solo verità incontrovertibili, calate dall’alto da qualche guru; rifiuta verità congetturali, come sono tutte quelle scientifiche: la relatività einsteiniana, l’evoluzione darwiniana, la teoria dei sistemi sociali liquidi, ecc.
È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?
Non si può trattare il transfert senza controtransfert, cioè senza il desiderio dell’analista. Senza controtransfert la psicoanalisi si riduce a cura medica. In effetti, oggi tutti vogliono questa riduzione: analisti e analizzanti tentano di ridurre la psicoanalisi a psicoterapia medica, senza compromissioni transferali né compromessi controtransferali. La difficoltà teorica, che sfugge a chi non ha esperienza diretta di psicoanalisi, è che non c’è differenza tra transfert e controtransfert. Sono entrambi forme di desiderio. Freud lo sapeva bene e dal 1915, dopo la faccenda Jung-Spielrein, smise di parlare di controtransfert. Temeva che la gente mormorasse che gli psicoanalisi si fanno le pazienti. Anche i geni sanno essere vigliacchi.
Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?
La vera conferma è un sogno. Le conferme si sprecano e sono sempre a buon mercato per qualunque sciocchezza: dall’antivax a...; il punto è che, statisticamente parlando, le conferme non confermano mai definitivamente. La probabilità che un aereo non cada dopo 100 voli è “solo” 101 su 102 (Laplace), che non è la certezza. Il discorso che si fonda sempre e solo su conferme è il delirio paranoico (quello religioso si avvicina). Difficile, invece, è trovare una confutazione decisiva di quella che si credeva un’ideologia incrollabile. Difficile è confutare un sogno e la sua interpretazione (che è un altro sogno). Ciò fa dire a Popper che la psicoanalisi non è scienza. La psicoanalisi non è certamente la scienza aristotelica dello scire per causas. Nella psiche esistono certamente fenomeni aleatori: dire un numero a caso può avere un significato non edipico, contro l’opinione di Freud.
Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?
L’inconscio è originariamente collettivo: il tuo prolunga quello dell’altro. Dal collettivo si “individua”, cioè si ritaglia, il soggetto individuale, secondo Jung. Lacan parlava dell’inconscio come discorso dell’altro. Lo scriveva con l’A maiuscola, un vezzo perdonabile.
Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?
L’analisi è infinita, non c’è scampo. Non si abbrevia: i numeri pari sono infiniti non meno degli interi e come i dispari. Non esistono rapporti quantitativi nell’infinito. Il termine usato da Freud, ma non adeguatamente sviluppato, è proprio il termine matematico, unendlich, “infinito”, malauguratamente tradotto “interminabile”. La psicoanalisi è infinita perché l’oggetto causa del desiderio, l’oggetto a, come lo chiama Lacan, è infinito nel senso matematico del termine. Lacan diceva che è originariamente perduto. Forse voleva dire che non è concettuale, proprio come l’infinito.
L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?
Mi piace perché è incompleta. Nella logica moderna il teorema di Gödel garantisce l’incompletezza di un sistema coerente e sufficientemente tanto potente da esprimere verità su sé stesso: esistono sempre affermazioni né dimostrabili né confutabili. Lacan diceva che la verità si può dire solo a metà. Questo la scienza galileiana, che è congetturale, lo sa benissimo; meno bene lo sanno le scuole di psicoanalisi, che propagandano le loro ortodossie. Ma Lacan lo sapeva e parlava di scienze congetturali del soggetto, senza dogmi, né vere né false. A proposito, quello di libertà è un tema ostico per noi psicoanalisti freudiani, dato lo spinto determinismo del pensiero freudiano. Ci arrangiamo a parlare di indipendenza o di Io autonomo.
Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?
Cadere nella routine della terapia e nel conformismo della teoria. Non è un pericolo dietro l’angolo ma a ogni piè sospinto.
Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?
Due o più. L’analisi non tollera terzi, diceva Freud in un pamphlet del 1926, intitolato La questione dell’analisi laica, che con Davide Radice ho tradotto per Mimesis. (Ufficialmente noto come Il problema dell’analisi condotta da non medici.) Si sbagliava. L’analisi è originariamente collettiva come il sapere inconscio su cui opera. I grandi dicono cose grandi al prezzo di qualche sciocchezza, che paghiamo noi.
La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?
La sessualità è al centro della vita, questa cosa indefinibile. Tuttavia è difficile sostenere questa tesi senza cadere nel vitalismo. Già il giovane Darwin si meravigliava di dover riconoscere che ogni individuo biologico dovesse interagire con ogni altro. L’interazione sessuale è solo la più problematica. Se la cavano meglio di noi solo le piante, i batteri e i virus, che lasciano la sessualità dietro la porta. Perché la Natura ha inventato la sessualità? Non lo so, perché non sono Dio. Certo è che la sessualità garantisce la variabilità genetica, quindi la vita delle specie. Al vitalismo non si sfugge. Finché morte finalmente non ci colga. Anche le specie muoiono.
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