Giancarlo Ricci, i conti con l'inconscio
A colloquio con lo psicoanalista di formazione freudiana, che spiega: “Il lavoro analitico punta a ritrovare il desiderio di progettare una libertà Altra che ha il sapore di una conquista perenne. Si tratta di qualcosa di differente rispetto al classico concetto di liberarsi da o di qualcosa. Evidentemente non ci si libera dall’inconscio, ma proprio qui risiede la cifra dell’umano. Saper fare lealmente (eticamente) i conti con questa cifra, senza aggirarla e senza scorciatoie, chiama in causa un differente concetto di libertà”
Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?
Servire è un verbo che ha una certa equivocità, rinvia a una sorta di utilitarismo. Diciamo che i motivi per cui qualcuno si rivolge a un analista sono molto differenti. Dipende dalla struttura della domanda. In generale, anche quando è in gioco un forte disagio, un malessere o una sintomatologia conclamata, mi sembra che l’analisi sia un’esperienza che si situa tra due bordi: quello della verità e quello della libertà. Si tratterebbe di lavorare affinché un soggetto svolga la propria esistenza lungo un sentiero di verità che consenta di poter attuare scelte davvero libere. Ciascuno può ritessere quello che ritiene il proprio destino, così come, rispetto a questa ritessitura, può assumersi una responsabilità differente. Non si può barare con l’inconscio, con la propria storia, con quella realtà effettuale in cui siamo immersi. Spesso l’invivibile è proprio questo: non riuscire più a vivere la vita, credere di dover sopravvivere, di ritenersi superstite. L’inconscio da ostacolo può divenire una risorsa inesauribile.
Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?
Desideravo avviare una formazione analitica. Non mancavano certo aspetti nevrotici. Mi ero iscritto a Filosofia alla Statale di Milano. Ero molto giovane e a metà degli anni ’70 la psicoanalisi appariva a molti come una via originale in grado di leggere in modo critico sia i conflitti individuali sia i conflitti sociali. Fin dall’inizio l’implicazione della dimensione soggettiva con il disagio della civiltà manteneva per me, e per molti della mia generazione, una rilevanza centrale. In quegli anni c’era un grande fermento di idee, pensieri, confronti, dibattiti… Poi, sul finire degli anni ’80, arrivò la Legge Ossicini e questo duplice aspetto, che tutt’ora ritengo significativo, gradualmente svanì a favore della professionalizzazione, dell’iter burocratico, delle procedure istituzionali. Ritengo che nella storia della psicoanalisi la Legge Ossicini costituisca un importante spartiacque.
Come scelse i suoi analisti?
Il primo - c’è sempre un primo analista - più che una scelta ponderata fu, per così dire, un incontro casuale. Erano i primi anni dell’Università, pieni di fermento e di passioni. In quell’incontro si condensavano una serie di vicende e di malintesi che emersero più avanti. Gli altri analisti, in anni più maturi, sono state scelte sicuramente ragionate e consapevoli.
Che cosa occorre per fare un ottimo analista?
Sarebbe sufficiente parlare di un “buon” analista. Un buon analista sarebbe colui che riesce ad attuare, innanzi tutto, quel “buon” ascolto che gli consenta di intervenire adeguatamente. Ho l’impressione che questa domanda ne sottenda un’altra: un analista “funziona” allo stesso modo in tutti i casi? Penso che talvolta un analista funziona “bene”, altre volte “ottimamente”, “discretamente” o ancor peggio. Ciò chiama in causa direttamente la sua formazione, o meglio, come essa ha lavorato la sua soggettività, ha arricchito le sue riflessioni teoriche, ha forgiato il suo approccio clinico. Del resto l’incontro tra un analista e un paziente ha sempre un esito imprevedibile, unico, particolarissimo. Diciamo anche che non tutto dipende dall’analista.
Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?
Curiosa domanda: da giovane, alle prese ancora con un lavoro di formazione, avrei risposto di getto che tante scuole confondono. Oggi risponderei che probabilmente aiutano o quanto meno non confondono. L’esperienza che si deposita nell’inconscio di un analista diventa man mano qualcosa che opera al di là di sé stessi, qualcosa che ascolta e parla in noi. Il lavoro dello psicoanalista comporta una rielaborazione incessante di varie istanze, notazioni, incongruenze che sorgono dalla pratica clinica. È un lavoro teorico incessante, rappresenta molto di più di quello che viene chiamato “aggiornamento”. Un analista sa che, nonostante infinite tecniche, approcci, modalità di intervento ritenuti “nuovi”, non potrà mai essere completamente “aggiornato”. Lavorare con l’inconscio, con questa “entità a stento afferrabile” come diceva Freud, comporta trovarsi in esilio rispetto ai “saperi forti”, ufficiali, accademici. Vivere immersi nello scientismo della nostra epoca raddoppia tale esilio.
Perché ritiene Freud il più convincente dei maestri?
In primo luogo è il fondatore e l’inventore di una pratica nuova. È il pioniere di un’avventura intellettuale ed etica straordinaria del ‘900. Purtroppo, nel corso dei decenni, Freud è stato letto in modo fuorviante. Tradotto negli Stati Uniti in modo funzionale e semplificato dalla psicologia o dalla psichiatria, tradotto talvolta in modo ideologico in Italia negli anni ‘60-‘70, ancora oggi il testo Freud ha molto da dire, nonostante sia stato saccheggiato da una certa psicoterapia, dileggiato o ritenuto superato. Nelle università di Psicologia il suo pensiero viene ridotto a una piccola dispensa riassuntiva e spesso insignificante. Da parte mia amo Freud. Ho scritto alcuni libri sulla sua avventura, per esempio Le città di Freud, Milano (1975) o S. Freud. La vita, le opere e il destino della psicoanalisi, Milano (1998). Quando oggi ancora rileggo Freud spesso mi sorprendo e trovo pensieri e riflessioni originali che in varie e ripetute letture mi erano sfuggite. Freud è il più convincente dei maestri perché è il meno sistematico, il meno dottrinario, il meno accademico. Il più contraddittorio perché il più umile.
Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?
Provocatoriamente direi che se questo “fare anima” avesse il senso di “fare inconscio” o “fare psichico”, concorderei pienamente. Nell’era della globalizzazione e della omologazione della soggettività umana, il motto “fare inconscio” mi sembrerebbe una buona idea, un ottimo progetto.
Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?
Famosa questione. È l’analista o il paziente? Concordano o dissentono? Il nodo tuttavia mi sembra costituito dalla parola “termine” nel senso di qualcosa che finisce. In realtà ciò che termina sono le sedute, gli incontri tra analista e paziente. Più che di “termine” dell’analisi - faccenda per alcuni tecnica, per altri terapeutica, per altri etica - preferisco parlare di “approdo”. Dove approda un’analisi? Lo dico rifacendomi all’impresa di Ulisse: per dieci anni sogna di tornare a Itaca. Approda a Itaca e lì si accorge, suo malgrado e inaspettatamente, che ancora deve giocare il tutto per tutto per riavere Penelope. Insomma: l’approdo non è tanto un punto di arrivo, quanto di partenza. Ovvero: un soggetto approda al termine dell’analisi nel senso che, oltrepassata questa frontiera, egli sarà spinto dal proprio desiderio a mettersi in gioco nel mondo con tutto ciò che di nuovo e di inedito ha imparato dall’aver esplorato il proprio inconscio.
Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?
Il tema della nevrosi si coniuga in mille modi. Se dovessi esplicitare, negli ultimi anni, quale sia la forma più frequente di nevrosi direi che, soprattutto da parte di giovani, ritroviamo una sorta di smarrimento esistenziale: un lasciarsi sopravvivere, la difficoltà di costruire un progetto, lo sfaldarsi della propria identità… È come se si fosse interrotta una trasmissione tra le generazioni, come se qualcosa si fosse inceppato. È come se il mondo attuale non avesse riservato ai giovani un posto simbolico per poter vivere dignitosamente. Molti giovani incontrano grandi difficoltà a diventare adulti, a diventare figli (nel senso forte del temine) e pertanto ad assumere una responsabilità generazionale. Spesso preferiscono rifugiarsi in un’eterna e puerile adolescenza. In effetti nella nostra società iper permissiva, che mette a bando il Padre o lo disautorizza, avanza a vari livelli un’ampia maternalizzazione le cui implicazioni sono spesso devastanti.
Curano di più le parole o i silenzi?
Bella domanda. Il silenzio ha una funzione essenziale. Ma anche la parola. Forse il segreto sta nell’intervallo tra silenzio e parola, in quell’interstizio enigmatico dove colui che parla e colui che ascolta si rincorrono senza mai raggiungersi. L’inconscio è anche questa distanza incolmabile tra parola e silenzio, tra memoria e oblio, tra senso e insensatezza. È come una tessitura: ciò che conta è la tenuta del tessuto. Non ci può essere trama senza ordito e viceversa: ossia non può esserci parola senza silenzio e viceversa. Attenzione: bisogna distinguere molto bene tra silenzio e tacere. Sono due aspetti completamente differenti, agli antipodi.
Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?
Occorre distinguere tra la funzione di analista e quella di padre. Talvolta, in qualche modo, può accadere che nella logica del transfert si verifichi una sovrapposizione. Il nodo è la presenza dell’Altro che l’analista per un buon tratto incarna. La sua funzione è consentire che la soggettività del paziente possa rielaborare il suo rapporto con l’inconscio, la sua storia, il suo “romanzo familiare”. Tuttavia lungo il procedere di un’analisi occorre pure che questo riferimento all’analista, a un certo punto, si articoli differentemente, attui uno spostamento, si dissolva. È un passo simbolico necessario. Altrimenti è la dipendenza, l’assoggettamento, la conferma narcisistica come alibi per rinchiudersi nell’identico. Un punto però è essenziale: che l’analista stesso favorisca questo processo.
Come si lavora per far crollare le resistenze?
Nel lavoro analitico non si tratta tanto di far crollare le resistenze, ma di coniugarle, lavorarle, attraversarle. Freud, quando parla di resistenza, distingue due termini: uno riguarda il concetto di contrapposizione, l’altro è propriamente la resistenza. La prima è riconducibile alla contrapposizione tra io e tu, ha una natura “personale”, speculare. La seconda invece – tenendo conto della lezione di Lacan – può considerarsi una resistenza della materia linguistica, il fatto cioè che le parole trasmettono, traducono ma soprattutto tradiscono perché il loro significato risulta sempre incompleto. La parola resiste alla Cosa, proprio perché il linguaggio come sistema simbolico non è la Cosa, la significa ma non la “tocca”. In tal senso Freud ha sempre ribadito un principio: maggiore è la resistenza del soggetto, maggiore è la trasformazione che si effettua. Freud aggiunge una considerazione quanto mai attuale: se nel corso dell’analisi non c’è stato un lavoro intorno alla resistenza, abbiamo il sospetto che la terapia si sia svolta all’insegna della suggestione. Dunque, paradossalmente, che vi sia resistenza è una fortuna e una risorsa. Indica che qualcosa è al lavoro.
È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?
Sono due complicazioni differenti. Anche se entrambe hanno la stessa stoffa. Possiamo dire che non c’è amore senza odio e viceversa. Inoltre, del resto, il transfert non può ridursi semplicemente a una faccenda di amore, così come il controtransfert a una faccenda di odio. Il concetto di controtransfert – non così centrale in Freud e molto indebolito in Lacan – a partire dagli ultimi due decenni è stato abbastanza ridimensionato da diversi analisti. Avvalendosi certo di buone ragioni, hanno preferito assimilare il controtransfert a una piega particolare del transfert. Parallelamente hanno rinforzato il concetto di transfert fino a individuare nel suo funzionamento la spinta decisiva del lavoro clinico e della rettifica soggettiva. Schematicamente: il vero nodo della pratica è di tenere ben distinti, nel funzionamento del transfert, il versante che si manifesta verso la persona dell’analista con il versante che rappresenta un’istanza storica inconscia del soggetto, ossia una riedizione, la chiama Freud, di antichi legami. Vi sono poi ulteriori letture del transfert, come quella di Lacan secondo cui è in gioco il concetto di “soggetto supposto sapere”. È un contributo importante ma ho l’impressione che nella pratica clinica non tutto il transfert possa essere letto come “soggetto supposto sapere”.
Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?
Certo: se un sogno viene “bene” interpretato gli effetti possono essere molto fecondi. Anzi direi che l’interpretazione di un sogno si misura dagli effetti che produce, effetti magari non immediati ma che appaiono in un tempo logico differente, imprevedibile. In realtà sono un po’ sospettoso dell’idea trionfalistica di un’interpretazione folgorante che dischiude le porte all’inconscio. L’inconscio è più astuto della nostra interpretazione…
Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?
Difficile rispondere. C’è immediatamente una questione topologica: ciò che appartiene a me e quello che appartiene ad altri. Ma ci si può facilmente ingannare. Esplorare il proprio inconscio esige forse più fatica in quanto è il “mio”, qualcosa cioè che mi è troppo vicino, che mi conforma e che probabilmente, proprio per questo, può essere abitato da punti ciechi di cui nemmeno mi accorgo. Lavorare con l’inconscio degli altri, ossia dei pazienti, può sembrare apparentemente meno faticoso. In realtà, in un certo senso, la fatica è la stessa se, beninteso, l’analista non demorde, se non si arrende dinanzi a qualcosa che gli pare insormontabile. In sintesi mi sembra essenziale la notazione di quell’analista – mi sembra Octave Mannoni - che affermava che le analisi dei pazienti avanzano e procedono fino a quel punto in cui è giunto il loro analista nella sua analisi. Notazione, tra l’altro, che evidenzia la non sovrapposizione tra tecnica e formazione.
Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?
Sono due cose differenti: il costo di un’analisi, preferirei parlare di investimento verso l’analisi, e l’efficacia misurata su un parametro cronologico. È un accostamento un po’ limitante e confusivo. A meno di considerare il concetto di “analisi breve” come l’esigenza ipermoderna di conquistare, presto e subito, un’efficienza dell’Io, una sua prestanza, un’integrazione con le richieste che gli vengono rivolte. Radicalmente direi: ciascun caso esige un suo particolare tempo di analisi. Non esiste un’analisi breve o lunga. In tal senso sarebbe interessante rileggere oggi il saggio di Freud, Analisi terminabile e interminabile.
L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?
A mio avviso è proprio questa la scommessa di un’analisi. Far sì che la libertà sia "bene detta", ossia adeguatamente elaborata attraverso quelle parole autentiche con cui il paziente progetta la propria esistenza e intravede il proprio “bene”. La soggettività di ciascuno non è già scritta come un destino, ma può essere ritessuta attraverso un “lavoro di libertà”, esattamente come Freud affermava che la psicoanalisi è un “lavoro di civiltà”. In sintesi: il lavoro analitico punta a ritrovare il desiderio di progettare una libertà Altra che ha il sapore di una conquista perenne. Si tratta di qualcosa di differente rispetto al classico concetto di liberarsi da o di qualcosa. Evidentemente non ci si libera dall’inconscio ma proprio qui risiede la cifra dell’umano. Saper fare lealmente (eticamente) i conti con questa cifra, senza aggirarla e senza scorciatoie, chiama in causa un differente concetto di libertà. Ho dedicato a questo tema gran parte del mio recente libro Il tempo della post libertà. Destino e responsabilità in psicoanalisi (Milano, 2019) in cui pongo il tema della libertà al centro dell’esperienza clinica. In questo libro constato anche che l’attuale enfasi della libertà individuale, promossa da una visione neoliberista, rappresenta, tutto sommato, una forma dissimulata di assoggettamento che cerca di omologare ogni differenza. Le conseguenze sono parecchie. Genera autoinganno e menzogna. Per questa via silenziosa il concetto di libertà rischia di essere inquinato da varie forme di mistificazione. Il soggetto “globalizzato” crede di essere libero ed è orgoglioso di questa conquista. Un aforisma di Karl Kraus risulta oggi quanto mai attuale: “La libertà di pensiero ora ce l’abbiamo, adesso ci vorrebbe il pensiero”.
Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?
Credere che il transfert sia rivolto alla persona dell’analista. Ritenere che tutto dipenda dalle proprie mosse, credere in definitiva a una sorta di onnipotenza. C’è un altro rischio evidenziato da Lacan. Egli mette in guardia l’analista dal credere di aver capito: è la via più diretta per sbagliarsi. Insomma oggettivare una situazione clinica rischia di incapsulare il paziente in una patologia predefinita. Non dimentichiamo che la prospettiva della psicoanalisi è diversa da quella della psichiatria.
Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?
Le persone che entrano in scena nel lavoro analitico sono moltissime. Sono coloro che il soggetto ha incontrato nella sua storia, anche se poi ha dimenticato, idealizzato, evitato o altro. Qualcosa continua a depositarsi nella memoria dell’inconscio, più o meno silenziosamente. Sono fantasmi che possono riapparire. Non dimentichiamo che l’etimo di persona rinvia a maschera. Ma dietro la maschera chi c’è?
La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?
Dipende da cosa si intende per sessualità. Per esempio Freud ai suoi tempi era accusato di pansessualismo. La nostra epoca, in un certo senso, è afflitta da una sorta di pansessualismo in cui prevale la sessuologia, il sesso inteso come piacere, come divertimento, come compiacimento narcisistico. La sessualità è un’altra cosa, ben più complessa in quanto costituisce il cuore della soggettività, il suo incessante mettersi in gioco nella relazione con altri. Siamo soggetti sessuati. In tal senso la sessualità, che non coincide con la genitalità, chiama in causa la nostra intima relazione con un’alterità irriducibile rappresentata dal nostro corpo e dal corpo dell’altro sesso. L’identità è sempre un’identità sessuata. Tutto ciò implica parecchie altre cose. In sintesi, direi che la sessualità, situandola agli antipodi della sessuologia e inassimilabile alla genitalità, rimane al centro del lavoro analitico.
Il Foglio sportivo - in corpore sano