Nicolò Terminio, il genio di Lacan
Il giovane psicoanalista di formazione lacaniana spiega: “Leggere i Seminari e gli Scritti di Lacan è un’esperienza estremamente coinvolgente perché si entra in contatto con il farsi dell’inconscio. La genialità di Lacan consiste nell’aver elaborato molto prima di tanti altri autori una certa concezione del soggetto e dell’inconscio. Nel panorama della psicoanalisi contemporanea la prospettiva di Lacan trova tantissime risonanze – al di là dei ghirigori e del gergo – nelle formulazioni di autori di primo rilievo”
Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?
La psicoanalisi è un’esperienza che può cambiare la vita grazie all’incontro con il proprio desiderio inconscio. Non in tutti i casi però la questione che si affronta riguarda il desiderio inconscio. Alcune forme di sofferenza esprimono una struttura o un funzionamento soggettivo dove il problema principale è sentirsi ancorati alla vita e l’aspetto cruciale della cura consiste nell’annodare senso ed esistenza. Altre situazioni cliniche mostrano un funzionamento così instabile da far diventare centrale la possibilità di mentalizzare e formulare l’esperienza che si sta vivendo. Ci sono inoltre alcuni casi dove l’impostazione psicopatica e perversa può essere incrinata solo grazie all’incontro con un analista e così il soggetto potrà confrontarsi con quell’angoscia e quel terrore da cui si difendeva con il suo comportamento antisociale. La psicoanalisi è anche un modo speciale di guardare alla vita organizzativa e alle dinamiche istituzionali. A questo livello la psicoanalisi non è più solo un metodo di cura del soggetto, ma diventa anche un approccio gruppale per alimentare il desiderio delle équipe di lavoro che sono impegnate nei servizi cura presenti sul territorio. In Italia, ormai da più di quarant’anni, la psicoanalisi ha trovato vie e modi diversi per realizzare il suo momento sociale. Ancora oggi non possiamo concepire la psicoanalisi senza il suo intreccio con la dimensione gruppale e la vita della città. La psicoanalisi è ancora tante altre cose. Vorrei ricordarne ancora una: il rapporto con il sapere. La psicoanalisi ci fa fare esperienza di un rapporto con una dimensione inconscia della nostra vita che si sottrae continuamente ad ogni rapporto. La psicoanalisi è esperienza del rapporto con l’assoluto, ab-soluto, sciolto da ogni legame. Passando attraverso questa esperienza cambiano tante cose e tra queste c’è il rapporto con il sapere, la cultura e tutto ciò che aspira a dire quel qualcosa di fondamentale che non si lascia dire.
Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?
Avevo 23 anni quando iniziai l’analisi, ero molto inquieto e stavo male, sapevo orientarmi nel mondo ma mi sentivo smarrito. Con il tempo ho imparato a sentirmi a casa nel non ritrovarmi e a trasformare quell’inquietudine nello slancio del desiderio.
Come scelse i suoi analisti?
Studiavo psicologia a Urbino, avrei voluto chiedere consiglio al Prof. Mario Rossi Monti con cui stavo preparando la tesi di laurea, ma mi vergognavo. Erano gli anni in cui a Urbino insegnava Massimo Recalcati, insieme a tanti altri studenti ero rimasto incantato dalle sue lezioni. Un giorno guardando nella bacheca universitaria vidi segnalata la presentazione del suo libro Clinica del vuoto, nella locandina era precisato che quella sarebbe stata l’ultima volta di Recalcati a Urbino. Andai per non perdere l’occasione, alla fine della presentazione gli chiesi consiglio per iniziare un’analisi, dopo averne parlato un po’ mi suggerì il nome del mio analista.
Che cosa occorre per fare un ottimo analista?
Occorrono dei buoni incontri, dedizione e passione. Incontrare dei buoni maestri è fondamentale, maestri in grado di trasmettere un metodo e stimolare la creatività. La dedizione nello studio dei classici della psicoanalisi (e della psicopatologia fenomenologica) permette di collocare la genesi dei concetti come risposta alle questioni della clinica ma anche come umanissima esigenza di costruire appartenenze gruppali. La passione per l’inconscio è l’elemento decisivo che va coltivato innanzitutto attraverso la propria analisi. È da lì che poi nasce la possibilità di maturare un proprio stile singolare. Un ottimo analista non è soltanto un professionista della salute mentale che ha acquisito in maniera egregia un metodo di cura molto sofisticato. I colleghi che considero degli ottimi analisti mostrano tutti un taglio singolare nel loro approccio clinico, sono clinici che sanno discostarsi dal manuale (implicito o esplicito) che viene tramandato dalla propria scuola, è questo infatti il fattore principale – come dimostrano anche le ricerche empiriche – che permette a una cura di esplorare nuove possibilità. Nonostante queste considerazioni faccio fatica a pensare che si diventi degli ottimi analisti, forse sarebbe meglio dire che ci possono essere degli ottimi incontri tra analisti e pazienti. Ciò che è veramente ottimo in una cura – o sufficientemente buono – è il momento in cui l’inconscio da fattore di ripetizione diventa invece occasione per l’invenzione.
Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?
Dipende. Considero i tanti orientamenti della psicoanalisi come tanti dialetti di una stessa lingua. E bisogna precisare che si tratta di una lingua che non esiste. Mi immagino le tante scuole psicoanalitiche come tante sedie disposte in cerchio, tante postazioni da cui osservare e prendere posizione rispetto a un vuoto centrale. Gli psicoterapeuti psicodinamici del futuro dovranno saper connettere i diversi orientamenti proposti dalle varie scuole perché non esiste la possibilità di trovare un metalinguaggio. Il sapere degli “psi” è sempre una coperta troppo corta rispetto al Reale della clinica e della vita. Da giovani però si è spesso tentati da quegli orientamenti onniscienti che hanno una parola per tutto. Poi per fortuna l’esperienza fa presto capire a ogni apprendista in psicoterapia che la clinica non si adatta mai del tutto ai nostri modelli e anzi quel discostamento dalle nostre preconcezioni permette la realizzazione dell’incontro con la singolarità del paziente, che oltre a essere un caso particolare previsto dalla teoria ha un volto unico. Lo scrittore Giuseppe Pontiggia era davvero formidabile quando prendeva di mira i gerghi specialistici e molte sue considerazioni rimangono un monito per ogni scuola che si presume più scuola delle altre. Con questo discorso non vorrei però far pensare che ogni orientamento è equivalente, scegliere un certo punto di vista sull’inconscio cambia notevolmente le possibilità di una cura. Voglio sottolineare che bisogna allenarsi a non innamorarsi mai di una sola teoria. A volte l’amore per una teoria non ci fa amare l’inconscio. Per metterci in ascolto dell’inconscio del paziente è necessaria quella “epochè” (sospensione del giudizio, messa tra parentesi) di cui ci parlano gli psicopatologi di scuola fenomenologica. Anche Elvio Fachinelli aveva parlato di un’epochè psicoanalitica riferendosi all’atteggiamento “senza memoria e senza desiderio” di Bion. Per fare epochè però qualcosa da mettere tra parentesi ci vuole. Bisogna infatti assimilare una teoria del soggetto. Ogni direzione della cura richiede una prospettiva diagnostica che si basa su un sapere psicopatologico che deriva da una teoria del soggetto. In conclusione, direi che la presenza di tante scuole aiuta a non considerare il proprio approccio come l’unico o il migliore in circolazione. Però se non si parte da una prospettiva chiara e definita ci si confonde e si tentenna nell’assumersi la responsabilità della scelta clinica. Secondo me, e in questa direzione mi muovo come un nano sulle spalle dei giganti, ogni scuola dovrebbe coltivare non parole per definire confini concettuali che garantiscono l’illusione di avere un proprio orticello, ma parole scelte per far emergere il modo in cui ciascun analista trasforma il sapere concettuale in sapere incarnato, soggettivato, singolare. È questa l’unica forma di sapere che viene in soccorso in quei frangenti della cura in cui l’inciampo dell’inconscio sollecita analista e paziente verso la scoperta di nuove strade da percorrere.
Perché ritiene Lacan il più convincente dei maestri?
Lacan non è il più convincente, è il più geniale. Leggere i Seminari e gli Scritti di Lacan è un’esperienza estremamente coinvolgente perché si entra in contatto con il farsi dell’inconscio. La genialità di Lacan consiste nell’aver elaborato molto prima di tanti altri autori una certa concezione del soggetto e dell’inconscio. Nel panorama della psicoanalisi contemporanea la prospettiva di Lacan trova tantissime risonanze – al di là dei ghirigori e del gergo – nelle formulazioni di autori di primo rilievo. Per esempio, potrebbe risultare sorprendente ma la concezione del linguaggio di Stephen Mitchell è quasi identica a quella di Lacan, e sappiamo quanto ogni teoria del soggetto esprima più o meno implicitamente una teoria del linguaggio. Senza poterlo approfondire adesso, possiamo capire grazie a Lacan e Mitchell perché è corretto dire che siamo dei “parlesseri”. Gli accordi e i rimandi tra Lacan e la psicoanalisi contemporanea sono innumerevoli e quelli che trovo più convincenti sono quelli che convergono verso la centralità del Reale dell’esperienza. Anche se lo si dice con dialetti diversi, il cuore dell’esperienza psicoanalitica è Reale, è da lì che sorge il movimento del desiderio. Dicevo che secondo me Lacan è l’autore psicoanalitico più geniale, per i concetti che sviluppa e per la traiettoria con cui ce li fa attraversare. Lacan non è però il più convincente perché, nonostante abbia concettualizzato il desiderio dell’analista consegnandoci una prospettiva inedita per la relazione terapeutica (anche per tutte quelle relazioni di aiuto che avvengono fuori dalla stanza d’analisi), è proprio su questo punto fondamentale che non ha dato una testimonianza all’altezza della sua genialità. Se leggiamo, per esempio, il libro Vita con Lacan di Catherine Millot notiamo che l’autrice è stata contemporaneamente allieva, paziente e amante di Lacan per una decina d’anni (e a suo dire non era l’unica). Queste violazioni del setting, così gravi e inammissibili, mostrano che Lacan aveva ragione quando diceva che ogni applicazione del metodo è innanzitutto una questione etica prima ancora che epistemologica o clinica.
Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?
È incredibile, questa è la seconda volta nel corso di due settimane che ricevo questa domanda. Sì, sono d’accordo, anche se con una consapevolezza ridotta dei miti e degli archetipi che riecheggiano nel linguaggio junghiano, condivido l’idea che l’attivazione del lavoro analizzante che avviene in una cura non sia un processo psicodinamico che può essere medicalizzato o confinato dentro le prassi e procedure dei vari approcci terapeutici. Vale semmai il contrario e così possiamo concettualizzare la cura psicoanalitica come una delle forme contemporanee che la vocazione umana ha di prendersi cura della complessità della vita che ha trovato.
Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?
La fine analisi arriva, è un evento che spiazza l’analizzante, è una trasformazione dell’inconscio: la ripetizione lascia spazio per un’invenzione, per una pagina inedita che non era stata scritta nella trama precedente. La fine analisi funziona come un taglio, come un trauma che rompe la trama esistente. Qualcosa di nuovo affiora in modo non programmato, è un Witz dell’inconscio che nella fase finale della cura verrà elaborato e accolto come uno spiazzamento perenne, come un intervallo della vita che siamo chiamati a vivere prima di rivestirlo con simboli e rappresentazioni.
Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?
Nella mia pratica clinica trovo frequentemente la necessità di un trattamento preliminare dei sintomi affinché possano diventare messaggeri della verità dell’inconscio. La classica nevrosi freudiana non è molto frequente e quando la si incontra si configura più come un risultato della cura che come un dato di partenza. Pensando alla mia esperienza (anche come supervisore in diversi servizi di cura) direi che questa è l’epoca della “clinica del vuoto” di cui parla Recalcati. La psicopatologia del presente pone ai clinici e a tutti gli operatori la sfida di trasformare l’agito in pensato, la sfiducia e la diffidenza nella possibilità di aprirsi e affidarsi innanzitutto alla dimensione della parola, una parola che sappia diventare però occasione di legame con l’Altro. Le forme più gravi di psicopatologia che affronto manifestano infatti l’eclissi dell’Altro e sono espressione di vissuti traumatici che generano a loro volta un funzionamento dissociativo. Il vuoto della clinica contemporanea va attraversato creando innanzitutto delle connessioni, delle trame per metabolizzare i traumi, delle relazioni accoglienti per ristabilire un clima di sicurezza, suoni e simboli per restituire alla vita il silenzio del trauma.
Curano di più le parole o i silenzi?
È nell’alternanza tra parola e silenzio che si esprime la sensibilità di un analista e l’orizzonte del lavoro dell’analizzante (in analisi analizzante = paziente). Nella cura ci sono silenzi che vanno tradotti e silenzi che vanno custoditi. Tutto dipende dalle questioni che si affrontano perché senza alcune parole la cura non andrebbe avanti. Ci sono dei silenzi che vanno tradotti in parole, altrimenti non si crea neanche la possibilità di sentire il valore generativo del silenzio, quel silenzio che si configura come il vuoto centrale da cui sorge la creatività del soggetto. Giusto per essere un po’ schematico, direi che all’inizio della vita c’è un silenzio che va tradotto in parole. È la dimensione che Recalcati evidenzia quando parla della trasformazione del grido in domanda. C’è però un altro silenzio che il soggetto deve incontrare una volta che è salito sulla giostra del linguaggio. Si tratta del silenzio del significante, per dirla lacanianamente. In questo caso il silenzio è un ingrediente fondamentale del linguaggio perché mostra che non tutti i significanti possono essere abbinati a dei significati. Carmelo Bene diceva che il significato è il sasso in bocca del significante. Nella cura psicoanalitica, e in tutti i trattamenti che si avvalgono di uno sguardo psicoanalitico, ci sono allora dei silenzi che vanno tradotti perché segnalano un trauma-grido che impedisce la costruzione di una trama soggettiva. Ci sono poi dei silenzi che vanno custoditi perché, sebbene si configurino come traumi che perturbano la trama soggettiva, permettono di introdurre qualcosa di inedito e di trovare la responsabilità e la libertà del proprio discorso.
Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?
Non metterei l’analista sullo stesso asse relazionale che lega un soggetto al padre. Certamente in una fase iniziale della cura l’analista assume le sembianze di una figura paterna, ma più si va avanti nella cura e più l’analista presentifica quella dimensione non metabolizzabile da nessuna metafora paterna. Direi quindi che l’analista non è come un padre o come un maestro, svolge però una funzione essenziale per riconfigurare il proprio rapporto con il padre e i maestri. Grazie a un’esperienza di analisi si comprende sulla propria pelle che il padre o il maestro vanno oltrepassati e, al contempo, raggiunti. Forse il verbo oltrepassare può far pensare che tra soggetto e padre ci sia una rivalità inevitabile, come se si facesse una gara e il soggetto deve superare chi lo ha preceduto. Per certi versi questo è inevitabile nello scambio intergenerazionale. C’è una poesia di Khalil Gibran che ricorda ai genitori che i figli abiteranno la casa del domani che loro non potranno visitare neanche in sogno. C’è un oltrepassamento strutturale da cui genitori e figli, maestri e allievi possono difendersi inscenando una battaglia imperniata sul rispecchiamento e sul riconoscimento. È questo il cuore della nevrosi. E se c’è un oltrepassamento da compiere riguarda l’emancipazione del soggetto dalla dipendenza del riconoscimento dell’Altro. Oltrepassare il padre o il maestro equivale a rinunciare alla loro approvazione per le proprie scelte, c’è un momento in cui scegliamo in cui siamo “soli e senza scuse”, direbbe Sartre citato da Recalcati. Sempre in questa direzione, Recalcati ha sottolineato che Il Nome del Padre non ha l’ultima parola sul Nome proprio del soggetto. Se si è presi dalla necessità nevrotica di oltrepassare il maestro, ci si preclude la possibilità di citarlo e di provare allo stesso tempo la sensazione di dire qualcosa in prima persona. Il conflitto nevrotico tra le generazioni distoglie l’attenzione dal cuore Reale della testimonianza che un padre o un maestro possono dare al soggetto. Forse non è questo il momento per approfondire la teoria recalcatiana della testimonianza, posso solo accennare che lì troviamo degli spunti utili per capire che diventare eredi non richiede soltanto un superamento della dipendenza dal maestro, ma richiede anche un atto verso il Reale di cui il maestro dà testimonianza. Un maestro va raggiunto nel punto di Reale di cui ci dà testimonianza. Diventare eredi implica da un lato l’emancipazione dal riconoscimento a tutti i costi nelle proprie scelte e dall’altro il coraggio di incontrare quel Reale assoluto di cui un vero maestro dà testimonianza.
Come si lavora per far crollare le resistenze?
Credo che le resistenze possano allentarsi se si alimenta la fiducia nell’inconscio. Non basta costruire una relazione all’insegna della fiducia nel terapeuta, bisogna essere almeno in tre nella stanza d’analisi: paziente, analista e inconscio. L’alleanza terapeutica nasce quando la relazione tra terapeuta e paziente trova un terzo polo che orienta il lavoro e gli accadimenti che avvengono in seduta. Forse è un po’ esagerato, ma potrei dire che anche nei casi più gravi – e sto pensando alle persone incontrate in comunità – la fiducia compare quando il paziente percepisce che la vitalità dell’operatore è indirizzata verso la scoperta delle ragioni della sofferenza. Se il terapeuta mostra al paziente un modo per accostarsi all’inconscio che non sia troppo perturbante ma anche generativo, allora la sfiducia e la diffidenza possono fare spazio a una genuina apertura. Questo però è solo uno dei primi passi nella cura, le resistenze (e le difese) non scompariranno mai del tutto, saranno sempre in rapporto allo sfondo inquieto che anima la dinamica transferale.
È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?
Direi che il controtransfert complica la gestione del transfert, se per controtransfert intendiamo l’emergere nella mente del terapeuta di temi nevrotici non sufficientemente analizzati. Nel panorama psicodinamico oggi si distingue il controtransfert inteso in questo senso dalla reazione emotiva del clinico di fronte alla psicopatologia del paziente. Le emozioni e i pensieri che un clinico (o un operatore) prova non riguardano sempre temi irrisolti della propria storia personale, in alcuni casi sono un indicatore prezioso per cogliere tratti e sfumature che caratterizzano la particolarità del paziente. La difficoltà consiste allora nel saper distinguere quanto ci mette il clinico e quanto ci mette il paziente: quello che il clinico prova dipende dall’inconscio del paziente o dal proprio? È in questa domanda che risiede tutta la delicatezza dell’atto diagnostico e terapeutico. Le supervisioni, per esempio, servono per distinguere il controtransfert dalla reazione emotiva generata dall’incontro con certe tipologie di pazienti. È una distinzione essenziale che riguarda non soltanto gli analisti che lavorano nel proprio studio, ma anche tutti gli operatori della salute mentale che si trovano alle prese con pazienti molto gravi. Basti pensare che nella cura dei pazienti borderline è molto più facile che siano gli operatori a borderlinizzarsi invece che i pazienti a stabilizzarsi (alcuni anni fa Giovanni Foresti e Mario Rossi Monti avevano scritto un articolo su questo tema parlando appunto di una diagnosi double-face). La gestione del transfert non si esaurisce però con l’analisi del controtransfert, anzi inizia proprio da qui ed è guidata da quello che in ambito lacaniano viene definito “desiderio dell’analista”, un desiderio che si rivolge alla singolarità del paziente, che vuole condurre il transfert verso l’incontro con il Reale, perché è lì che il paziente potrà scoprire la propria unicità. Se il controtransfert e la reazione emotiva del clinico sono due categorie concettuali che segnalano ciò che in qualche modo si ripete nella relazione terapeutica, il desiderio dell’analista vuole configurarsi come una risposta inedita che il paziente troverà nell’operatore della cura. È anche una posizione nuova che l’operatore elabora e continua a inventare, il desiderio dell’analista è singolarità che si rivolge a singolarità. Non dobbiamo però dimenticare che sebbene il desiderio dell’analista sia singolare va coltivato in una comunità analitica.
Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?
Sì, si può avere conferma di una buona interpretazione. Sottolineerei però che in ambito lacaniano il paziente in analisi non è un analizzando ma un analizzante. Analizzante perché è attivamente coinvolto nel lavoro interpretativo che viene compiuto sulle manifestazioni dell’inconscio, e il sogno è in prima linea in questo lavoro insieme a sintomi, lapsus, dimenticanze e altri inciampi vari. Se consideriamo l’interpretazione analitica come un lavoro di decifrazione dei segni dell’inconscio, allora possiamo concepirla come un lavoro di cooperazione tra analista e analizzante. Lavorano entrambi nella lettura del testo dell’inconscio, ma da una posizione diversa che definisce quindi anche un tipo di conferma diversa che entrambi possono ottenere sulla loro cooperazione. Adesso non approfondirei tutte le dinamiche possibili che possiamo riscontrare in questo intreccio cooperativo tra posizioni diverse dove c’è una disparità assoluta. Il discorso diventerebbe molto ampio perché ci sono conferme che sono esplicite, altre che invece sono mascherate da false opposizioni, alcune conferme arrivano subito e altre addirittura dopo qualche anno, altre ancora vengono dette con il silenzio mentre altre con le parole. Inoltre si tratta di conferme che non indicano solo l’esattezza delle decifrazioni, la vera conferma di un’interpretazione viene dall’apertura delle possibilità della cura e non solo dalla concordanza delle letture di analista e analizzante. Sintetizzando molto aggiungerei soltanto che le interpretazioni sono buone non solo per le trame di senso con cui costruiscono un ponte tra analista e analizzante ma anche per i traumi (generativi) con cui spiazzano l’analizzante al di là dell’orizzonte del senso.
Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?
Sono due lavori diversi che richiedono due motivazioni diverse e che avvengono da due posizioni diverse: analizzante e analista. Quando si lavora con il proprio inconscio si è in posizione analizzante, quando si lavoro con quello degli altri si svolge la funzione di analista. Adesso, mentre rispondo alle sue domande sto svolgendo un lavoro analizzante e in qualche modo, anche se rifletto su quello che dico, sono parlato dal mio inconscio. Sicuramente lei noterà degli aspetti di me che continuano a sfuggirmi: l’inconscio è noto a tutti e ignoto a ciascuno, diceva Lacan. Quando avevo iniziato l’analisi facevo più fatica a lavorare con il mio inconscio rispetto a oggi, non solo perché avevo diverse questioni da risolvere, ma anche perché non avevo maturato uno stile singolare per rivolgermi alla mia singolarità. Non si smette mai di lavorare con il proprio inconscio, sviluppando un proprio stile ci si appassiona anche a lavorare con le persone affinché diventino loro stessi analizzanti. Direi che il lavoro di analista è meno faticoso di quello di analizzante, però è molto più delicato perché ci si assume la responsabilità clinica del lavoro di un’altra persona.
Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?
Non sono convinto della possibilità di un’analisi breve, anche se possono esserci dei percorsi terapeutici brevi che risultano soddisfacenti per le persone che li compiono. Non tutti i pazienti che si rivolgono a un analista faranno un’analisi, in alcuni casi i colloqui potranno configurarsi come una consulenza generativa che aiuta a focalizzare alcuni aspetti della propria vita e a ripartire. Sono situazioni però che non si possono definire in anticipo, dipende dall’incontro che si genera tra paziente e terapeuta e dalle esigenze specifiche del paziente. Non considero corretto quindi un atteggiamento clinico che punta in tutti i casi a trasformare la serie dei colloqui iniziali in un’analisi, né allo stesso tempo mi convince chi propone sin dall’inizio un percorso breve. In un caso o nell’altro si anticipa quello che potrà avvenire e questo preclude la manifestazione del tempo dell’inconscio. Il tempo dell’inconscio è la vera dimensione temporale che può farci affermare che un’analisi sia in corso. Un’analisi non è data dal tempo dell’orologio e dei calendari. La dimensione temporale dell’inconscio va preservata non con la durata scandita dall’orologio, ma con la durata del tempo vissuto. Se in una seduta c’è incontro con la sorpresa dell’inconscio allora possiamo parlare di psicoanalisi, altrimenti è un colloquio psicologico anche se avviene tre o quattro volte la settimana per dieci anni. Secondo una concezione cumulativa del tempo un’analisi lacaniana che dura dieci anni sarebbe comunque un’analisi breve. Non è però un’analisi breve perché, sebbene il tempo delle sedute sia generalmente ridotto (ma non sempre, in alcuni casi le sedute variabili si dilatano anche), gli incontri avvengono in un arco di tempo lungo che consente il sedimentarsi delle tracce di Reale che di volta in volta l’analisi produce.
L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?
Sì, mi piace, ovviamente la sua domanda mi stimola a precisare che non esiste una libertà senza vincoli, quella sarebbe una libertà immaginaria, la vera libertà è la responsabilità con cui assumiamo i vincoli del nostro essere dei parlesseri.
Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?
Più andiamo avanti con le domande e più mi sembra corretto quello che sostenevo prima, quando dicevo che mentre le rispondo sono in posizione analizzante. Direi che il vero rischio per un’analista sia quello di identificarsi con il ruolo dell’analista e anche quello di fare soltanto l’analista, di ridurre la propria vita al lavoro di analista. Fare l’analista è mestiere che prende tanto perché si svolge sul bordo delle mental health professions e su quello dei lavori creativi e artistici. Ma non è pienamente nessuno dei due e per ricordarselo occorre veramente quella che Lacan definiva “destituzione soggettiva”. Secondo me in questo modo l’analista può continuare a guardare la psicoanalisi a partire dalla vita e non la vita a partire dalla sua poltrona, perché è proprio quella la tentazione anti-analitica del lavoro dell’analista.
Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?
Io incontro anche i familiari dei pazienti, conduco anche un gruppo, quindi sono abituato a pensare anche in setting multipersonali e variabili. Ma il discorso di Ogden non si riferisce a questi aspetti, va più a fondo e con il concetto di “terzo analitico intersoggettivo” aggiunge una terza forma di inconscio oltre a quello del paziente e dell’analista. La funzione del Terzo è fondamentale anche nella prospettiva lacaniana per non ridurre la seduta a una dialettica intersoggettiva tra due persone. Come accennavo prima è importante che in seduta si sia in tre: analista, analizzante e inconscio. Inconscio dell’analizzante, preciserei. Altrimenti la funzione del Terzo invece di diventare un’occasione per superare la dualità immaginaria e speculare, alimenta la confusione e in alcune situazioni non si comprende se l’analista prenda spunto dal materiale del paziente per condurre la cura o per affrontare dei suoi temi inconsci che non hanno nulla a che vedere con quello che il paziente dice effettivamente. Quindi è importante mantenere l’idea che il campo analitico include e costituisce un Terzo fondamentale per l’avvenire dell’inconscio nella cura, sottolineando però che esiste una disparità assoluta nel lavoro intersoggettivo tra analista e analizzante.
La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?
Sì, è sempre al centro del lavoro analitico perché la sessualità è un’esperienza umana che per essere vissuta richiede un percorso di soggettivazione. Nella sessualità troviamo il nostro momento di verità, una verità che ci sfugge sempre. La soggettivazione della propria sessualità in ambito lacaniano viene chiamata “sessuazione” e, come ha messo ben in luce Recalcati, è un processo che possiamo suddividere in tre tempi: il tempo biologico, il tempo dell’Altro e il tempo della scelta del soggetto. Nel tempo biologico ci viene assegnato il sesso, possiamo essere maschi o femmine, è il tempo dell’identità di genere (mi riconosco o non mi riconosco nel sesso biologico che mi è capitato). Il tempo dell’Altro è il tempo del condizionamento culturale rispetto al mio modo di vivere l’essere maschio o femmina, è il tempo del ruolo di genere. Se sono stato educato pensando che gli uomini devono essere serviti dalle donne, posso anche riformulare questa posizione e pensare che i piatti li lavo anche io. Il tempo dell’Altro può essere riformulato attraverso la soggettivazione. Nel tempo della soggettivazione il soggetto si assume la responsabilità del proprio Reale sessuale attraversando il condizionamento dell’Altro e non lasciando che dica l’ultima parola sul proprio rapporto con il partner. Il tempo della scelta del soggetto risulta irriducibile sia al tempo biologico, sia a quello delle determinazioni dell’Altro, pur avendo come sue condizioni l’uno e l’altro. Si tratta di un tempo etico dove il soggetto può davvero nascere una seconda volta. È di questo avvenire che prova a prendersi cura la psicoanalisi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano