Claudio Widmann, narcisismo e psiche collettiva
A colloquio con lo psicoanalista di formazione junghiana, che avverte: “Il narcisismo mi pare la dinamica psichica a maggiore diffusione. Copre aree della grande patologia psichiatrica, della nevrosi vera e propria e di organizzazioni della personalità prive di esiti patologici. Se guardo all’ordinaria diffusione di atteggiamenti autoreferenziali, pretese egocentriche, superficialità di valori, ostentazione di immagini fittizie (virtuali e reali), sono indotto a ritenere che il narcisismo sia un tratto endemico nell’attuale psiche collettiva”
Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?
È un’esperienza di vita. È un campione rappresentativo dell’esistenza, sperimentato all’interno di un ambiente libero e protetto, per comprendere il passato e sintonizzarsi con il futuro. L’analisi ricompone la frammentarietà delle esperienze entro una rete organica e nella complessità individuale coglie l’unità personale. Percepirsi come esseri unici e significativi, immersi in un progetto dotato di senso è l’esito forse più felice dell’analisi.
Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?
Avevo un grande desiderio di fare lo psicologo e, in anni in cui la psicologia ufficiale non esisteva, non era un progetto banale. Cercai un analista con l’intenzione di fare un’analisi didattica. Naturalmente i bisogni della psiche erano altri; ma accade, nella vita, che dietro a nobili intenti si celino basse motivazioni e che da basse motivazioni traggano origine realizzazioni più alte.
Come scelse i suoi analisti?
In realtà non credo di averli scelti. Il progetto di vita si sviluppa al di sotto delle nostre valutazioni, scelte, decisioni; si sviluppa attraverso e non per effetto di esse. Un disegno sotterraneo, dunque, mi accostò dapprima alla psicoanalisi kleiniana e poi a quella junghiana. Mi fece anche incontrare, prima come supervisore e poi come amico, una figura singolare e talentuosa. È nipote di Jung e mi trasmise per il pensiero junghiano almeno parte della considerazione che egli nutre per suo nonno.
Che cosa occorre per fare un ottimo analista?
Credo molte cose, ma anzitutto la consapevolezza che non sarà mai ottimo. L’analisi è un atto creativo irripetibile, a cui concorrono due soggetti diversi per definizione e, oltretutto, in continua trasformazione. Non so immaginarla senza errori. Ma nemmeno so immaginarla senza regole e senza una costante capacità di auto-rettifica. Credo che si addica a tutti i non-ottimi analisti l’indicazione di Beckett di “sbagliare ancora”, ma soprattutto di “sbagliare meglio”.
Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?
Non è la quantità che confonde, è l’eventuale mancanza di rigore e coerenza. Le scuole propriamente psicoanalitiche non sono molte e la loro relativa diversità è ricchezza di pensiero e di metodo. Ma accanto alle non molte scuole psicoanalitiche pullulano scuole e soprattutto persone “ad orientamento”, “di ispirazione“, “a vocazione”, “di tendenza” psicoanalitica. Sono tutti modi per dire che psicoanalitiche non sono e mostrano che la nozione di “psicoanalisi selvaggia” ha acquisito accezioni ed estensioni impensate. Questo confonde.
Perché ritiene Jung il più convincente dei maestri?
Non credo che sia il più convincente e non voglio fare nulla perché lo sia. Troppo spesso si guarda alla psicoanalisi come a uno strumento di convincimento, ma nella prospettiva analitica convincere non è uno scopo né un valore. Preferisco dire in cosa Jung ritenne di distinguersi. Secondo la “vulgata” zurighese, un giorno disse che, per quanto concerne strettamente l’esplorazione dell’inconscio, non vede nel suo metodo alcun surplus rispetto a quello freudiano o adleriano. Ma là, dove l’Io si è sufficientemente familiarizzato con l’inconscio, egli vede una prospettiva ulteriore, quella di essere “più decorosamente inconsci”. È specificità dell’analisi junghiana coltivare una relazione costante e feconda tra inconscio e coscienza; un modo “decorosamente inconscio” di essere consapevoli.
Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?
Alla lettera, “fare anima” è improprio, se non è sbagliato. Ma l’espressione è fortemente evocativa; rimanda a esperienze che riguardano aspetti della personalità, che abbiamo pudore perfino a chiamare anima e che preferiamo chiamare psiche. Hillman si riferisce soprattutto a esperienze che hanno attinenza con la psiche inconscia, quali sono i sogni, le fantasie (compresa la tecnica specificamente junghiana dell’immaginazione attiva) i miti e tutte le manifestazioni “inferiori” della psiche. Fare anima è un buon modo per essere più decorosamente inconsci.
Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?
Una macabra, ma strisciante ironia vuole che l’analisi finisca quando muore l’analista oppure l’analizzato. È un modo per dire che, nella sua essenza, l’analisi è interminabile, perché coltivare il rapporto tra coscienza e inconscio potenzialmente non ha fine. Di fatto, come tutte le scelte, anche quella di concludere l’analisi spetta al paziente. È auspicabile che scaturisca da un confronto con l’analista sia in forme dirette, sia nelle forme simbolizzate del transfert. In ogni caso dovrebbe scaturire dal confronto tra le valutazioni della coscienza e le risonanze dell’inconscio. La conclusione dell’analisi è un passaggio significativo; dovrebbe essere frutto di costruzione analitica. Spesso non è adeguatamente valorizzata dai pazienti e forse nemmeno dalla psicoanalisi. Continuo a trovare interessante che molti libri siano dedicati al “primo colloquio”, pochissimi all’“ultimo colloquio”.
Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?
Se prescindiamo dal termine “nevrosi”, il narcisismo mi pare la dinamica psichica a maggiore diffusione. Copre aree della grande patologia psichiatrica, della nevrosi vera e propria e di organizzazioni della personalità prive di esiti patologici. Se guardo all’ordinaria diffusione di atteggiamenti autoreferenziali, pretese egocentriche, superficialità di valori, ostentazione di immagini fittizie (virtuali e reali) sono indotto a ritenere che il narcisismo sia un tratto endemico nell’attuale psiche collettiva.
Curano di più le parole o i silenzi?
Se posso ricorrere a un’immagine prosaica: per giocare a golf è più utile la mazza o la pallina? Silenzio e parola sono strumenti di comunicazione; il loro uso mirato intensifica l’efficacia della comunicazione. Hanno qualità opposta e per questo si integrano e potenziano reciprocamente. La psicoanalisi junghiana valorizza la convergenza degli opposti a tutti i livelli.
Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?
“Se incontri il Buddha per strada, uccidilo” è un aforisma zen di grande profondità. Non è il Buddha o il padre che va ucciso, ma il disegno della mente ingenua di vivere l’illuminazione di un altro, di appiattirsi su un modello estraneo a sé, di darsi un’identità che non è la propria. Il padre va interiorizzato e abbandonato, per cercare altri padri, per interiorizzarli e abbandonarli a loro volta, per ricominciare daccapo, per comporre -padre dopo padre- il mosaico della propria individualità. Perché ogni padre è il rivestimento di un archetipo, è la materializzazione contingente di un’idea immateriale, assoluta.
Come si lavora per far crollare le resistenze?
Occorrerebbe chiederlo a chi lavora per far crollare le resistenze. La psicoanalisi (credo non solo quella junghiana) ha grande rispetto delle resistenze: sono strutture di tutela dell’Io. Personalmente, mi adopero per instaurare relazioni più evolute tra inconscio e coscienza; relazioni dove l’Io non abbia necessità di opporre all’inconscio resistenze smodate.
È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?
Jung ha una concezione un po’ particolare della relazione tra analista e analizzato. La illustra un’immagine alchemica, in cui due persone sono sedute sul bordo di una fontana, con i piedi a bagno nell’acqua. È l’immagine di due persone che attingono a un bacino inconscio comune e la stessa acqua bagna entrambe. Fuori di metafora: in un inconscio che è collettivo i contenuti possono risalire attraverso l’analista o attraverso l’analizzato; sono un’identica “umidità di risalita”. La gestione è più complicata non nel transfert o nel controtransfert, ma là dove la risalita dell’inconscio è più irruente o turbolenta.
Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?
È necessario. Soggettività individuale e imperscrutabilità dell’inconscio non autorizzano ad attribuire al sogno e al simbolo significati a piacere. Di ogni interpretazione vanno verificate le connessioni con l’universo simbolico dell’analizzando e le ripercussioni sull’attività psichica: anzitutto come si sviluppa la stessa produzione inconscia e poi come si modifica la consapevolezza e, last but not least, il comportamento della persona.
Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?
Come sopra. Il bacino cui attinge la coscienza propria e altrui è il medesimo; i contenuti a volte risalgono attraverso altri e a volte attraverso di sé. La difficoltà dipende dalla loro distanza dalla coscienza, dalla loro incompatibilità con l’Io più che dal canale di risalita.
Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?
Tutti noi conosciamo esperienze (una malattia, una vincita, un incidente, un incontro) che cambiano la vita in un tempo breve, a volte in un attimo. Ciò non significa che queste siano riproducibili nel contesto analitico. Molto dipende dall’obiettivo cui si tende. Se l’obiettivo è la riduzione di un sintomo, molti interventi possono essere efficaci, dalla direttività al condizionamento, dalla rieducazione al contenimento. Ma là, dove l’obiettivo è quello di promuovere la compiutezza individuale, i tempi sono fatalmente lunghi. Molte analisi del resto, raggiungono gli obiettivi iniziali nell’arco di alcuni mesi o di pochissimi anni. I sintomi si attenuano o scompaiono, la qualità di vita migliora; ma ecco che affiorano desideri nuovi: coltivare una diversa relazione con sé stesso, diventare un individuo migliore, aderire con consapevolezza alla propria mission esistenziale, vivere con responsabilità il destino che ci è dato in sorte. E l’importanza del tempo sbiadisce.
L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?
La accolgo come la accoglie Dante, quando dice: “a maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete”. È un ossimoro, ma è una verità psicologica. L’Io compie un processo di liberazione dai vincoli e dai condizionamenti inconsci non per attestarsi su un liberismo autarchico, ma per mettere le proprie funzioni al servizio di un progetto esistenziale inconscio e cogente, che ciascuno porta in sé. Junghianamente questo è la “maggior forza e la miglior natura” del Sé.
Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?
Ritengo che dipenda molto dalla tipologia personale dell’analista. Per un tipo introverso, per esempio, è consistente il rischio di ritirarsi nel mondo delle immagini psichiche, allontanandosi da quello dei fatti reali. Per un tipo razionale, c’è il rischio di familiarizzare con le brutture dell’uomo fino a divenire insensibile. Per un tipo “sentimentale” può essere maggiore il rischio di rimanere oppresso dalla sofferenza, di “portarsela a casa”, come si suol dire. Ma sono solo esempi.
Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?
Folle di persone sono sempre presenti nelle stanze dell’analisi, perché ciascuno è più che individuale, è sempre collettivo. Ci sono pazienti di cui conosco in dettaglio i genitori (come da psicoanalitico luogo comune), ma anche i colleghi di lavoro, i figli adolescenti, gli amanti, certi conoscenti occasionali. Ci sono pazienti a cui non parlo io, ma parlano i modelli professionali o personali che ho introiettato. E poi, nella seduta entrano figure impersonali, che si materializzano tanto nell’analista quanto nell’analizzato e che solo l’immaginario sa ritrarre nella loro purezza. L’unica volta che sono stato aggredito fisicamente, il paziente si alzò pacatamente, mi colpì in modo freddo e fulmineo e se ne andò senza fretta e senza una parola. In quel momento usciva dallo studio il Killer di tante storie archetipiche.
La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?
C’è soprattutto la possibilità che la sessualità sia simbolo; non semplice raffigurazione, ma simbolo operativo, esperienza vissuta. È facile vedere che la sessualità è energia ed effervescenza, è attivazione e piacere; è creatività oltre che procreazione e trasporto oltre che unione. È simbolo vivo di congiunzione tra diversi, a volte tra opposti. Per scomodare un’ultima volta parole di Jung, è mysterium coniunctionis.
Il Foglio sportivo - in corpore sano