Franco Borgogno, una vita che cura una vita
Lo psicoanalista torinese, di formazione freudiana, spiega: “Io credo che ciò che cura sia l’“essere responsivo” dell’analista, il fatto cioè che egli risponda alla sofferenza che gli comunica il paziente. Il fatto che egli trovi per quello specifico paziente e per quel momento dell’analisi il modo appropriato per essere responsivo con lui. Per questa ragione, in certi momenti, anche il tacere può essere la cosa migliore da fare, il tacere ascoltando quanto il paziente dice; il più spesso questo tacere va però accompagnato da un gesto di presenza partecipe”
Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?
Mi baserò nel rispondere a questa prima domanda su ciò che ho scritto al riguardo nel 2007 in “The Vancouver Interview” (Roma: Borla). Con Freud direi che essa è una “conversazione speciale”, al cui centro non vi sono meramente le parole ma le “transazioni affettive” di cui trasuda la nostra presenza “in carne e ossa”, quel che Winnicott chiamava l’area dei “gesti” (“di riconoscimento”, “di conferma” e “di convalida psichica”) che dimostrano che “tu sei esistente per un altro”. Freud nel definire la psicoanalisi una “conversazione speciale” intendeva porre in risalto quanto il “mettere – liberamente e sinceramente – in parole” l’inconscio aiuti e ampli la crescita di un individuo e la sua consapevolezza di sé nel mondo. Mettere liberamente e sinceramente in parole, e dal canto dell’analista dare rappresentazione verbale alle vicende emozionali inconsce del paziente, costituivano per lui il “fattore curativo specifico” della psicoanalisi che, a differenza delle altre forme di psicoterapia, non si accontentava di un risultato favorevole senza indagare né le ragioni che avevano determinato una specifica sofferenza psichica, né che cosa nell’infanzia e nell’attualità aveva causato e causa il “mal-essere” del paziente. Nonostante ciò, lo stesso Freud sapeva comunque che il mettere in parole non era in sé sufficiente, ma la sua personalità lo rendeva maggiormente “amico” delle parole che non dei sentimenti, innanzitutto di quelli più infantili di pertinenza del bambino piccolo. Freud tuttavia non aveva gli strumenti per compiere la necessaria “discesa alle madri” e per avvicinarsi a ciò che io ho chiamato “mondo della nursery”. Un territorio, il “mondo della nursery e della tenerezza”, a lui in parte estraneo (lui stesso amava considerarsi un conquistador piuttosto che un terapeuta eccellente). Precisamente per questo motivo, io preferisco nel definire la psicoanalisi porre in rilievo – e con ciò mi associo a Ferenczi e alla Heimann – che essa è elettivamente un apprendimento da un’“esperienza emozionale” speciale, in cui il motto greco “conosci te stesso” diviene, in senso relazionale, “lavora con un altro per capire chi tu sei”. Una reale esperienza vissuta – detto altrimenti – al cui interno sia il paziente sia l’analista sono portatori di un ambiente le cui rispettive caratteristiche devono però essere diverse, in quanto è il “contrasto” tra questi due ambienti il vero fattore terapeutico della psicoanalisi (Ferenczi). Detto sinteticamente ciò, rimarcherei andando all’osso che la psicoanalisi:
a) è innanzitutto una “forma di educazione”, un’educazione alla vita e al vivere che può in parte “immunizzare”;
b) che è parimenti – lo ripeto – un “apprendimento dall’esperienza delle emozioni e delle relazioni” che quando perviene a reale conoscenza genera una “nuova fiducia” e un “nuovo inizio”;
c) che è inoltre anche un “modo per rendere più ‘giocoso e libero’ il proprio pensiero”;
d) che è infine la “via attraverso cui recuperare le proprie parti esiliate, in specie quelle infantili, se l’analista può ospitarle e “interpretarle” a lungo, nel senso di esserne lui il portatore finché il paziente, disidentificandosi dalle figure di adulto in cui forzatamente talora ha dovuto identificarsi nella sua esistenza (talvolta per sopravvivere), non sarà in grado di ri-appropriarsene riconoscendo come nel passato le abbia dovute espellere dalla consapevolezza e vi abbia dovuto rinunciare, in alcuni casi financo mai entrandovi in contatto, non rinvenendo esse uno spazio psichico che le accogliesse e che accordasse loro una reale cittadinanza dandovi nome, valore e significato.
Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?
Perché sentivo che mi mancava qualcosa che i miei genitori non mi avevano dato e non mi potevano dare. Avevo bisogno di qualcuno che mi ascoltasse aiutandomi a districare la matassa di pensieri ed emozioni entro cui ero ingarbugliato. Ho deciso di fare un’analisi poco dopo i miei 18 anni, analisi che ho cercato di pagarmi da solo.
Come scelse i suoi analisti?
Non li ho scelti. Il primo con cui ho iniziato a lavorare all’incirca sui miei 18-19 anni, data l’idealizzazione che avevo fatto della psicoanalisi, mi è andato bene senza che avessi il tempo di conoscerlo. In effetti non è poi stato proprio l’analista che ci voleva (questo analista era silente, era non responsivo, si occupava molto poco di me) per cui ho iniziato ad avere persone sostitutive che avevano il compito di dare a me le risposte e l’ascolto che non ricevevo da lui. Come ho scritto, ho imparato da lui che cos’è l’“acting out” del paziente determinato dalle “omissioni di soccorso” dell’analista. Un elemento è stato tuttavia in parte positivo: l’avermi lui lasciato essere e fare tutto ciò che volevo; solo “in parte” positivo perché all’età di 18-19-20 anni uno ha ancora bisogno di una persona più grande che ti segue da vicino e ti parla pur non opprimendoti con le sue aspettative e i suoi desideri. In questo modo io ho infatti continuato a crescere piuttosto solo senza la presenza di un altro più grande con cui confrontarmi. Quando poi volli ri-iniziare l’analisi anche al fine di diventare analista, mi rivolsi a un analista che conoscevo di vista in quanto lavorava al piano superiore rispetto a dove anch’io lavoravo. Non so se lo scelsi, ma fu l’unico che mi disse: “Se la prendono ai primi colloqui, iniziamo l’analisi”. Allora gli psicologi nella Società Psicoanalitica Italiana erano meno dell’1% sul totale degli analisti (i candidati analisti erano ossia pressoché esclusivamente medici). Questo analista, che aveva l’aria severa di un signore di mezza età, io me lo prefigurai napoletano e assai simile agli avi giudici e magistrati presenti nei dipinti di casa mia: severi, rigorosi, ma equi e non timorosi di essere contrastati se affermavano quello che pensavano. Scopersi però successivamente che non era napoletano e neppure proveniente da una famiglia di giuristi e notai come la mia (anche se – come venni a sapere in seguito – sua moglie proveniva da una famosa famiglia italiana controcorrente, pronta a costo della propria vita a lottare per le proprie idee), ma nel mio vederlo così mi “accasai” e lo “accasai”. Vi fu perciò – con lui – una simultanea intesa, che quasi mai si interruppe. Parlava molto, era responsivo, sapeva essere materno ma – se era d’uopo – anche paterno e fraterno. Tutte le due analisi le ho iniziate a causa di una mia sofferenza personale, sofferenza diversa ovviamente per via dell’età in cui le ho intraprese. In un momento di successiva crisi cercai dopo i 40 anni una terza analisi a Roma ma l’analista a cui la chiesi nel giro di un anno e mezzo prima di iniziare incominciò a chiedere a me e a Parthenope Bion aiuto per ritornare a vivere a Torino e di conseguenza il nostro progetto si interruppe. Lei comunque l’avrei scelta. Era assai simile a mia madre fisicamente, ma non psicologicamente; pareva fra l’altro conoscermi senza quasi mai avermi incontrato prima come suo paziente. Mi capiva al volo e non sapevo come facesse a capirmi in quel modo. Più avanti – ripensando al mio breve incontro con lei – ho tuttavia pensato che in quanto “adulto e vaccinato” le mie resistenze a quel tempo erano minori e che, in quella serie di colloqui avuti con lei, io stesso l‘avevo aiutata molto a capire me e le mie sofferenze
Che cosa occorre per fare un ottimo analista?
Tantissime cose. In tutti i miei libri ho esplorato questo aspetto: le qualità affettivo-cognitive degli analisti e dei caregivers. Sarebbe comunque meglio esplorare quale sia l’analista “efficace” con uno specifico paziente. Preferisco fra l’altro usare l’aggettivo “efficace” rispetto all’aggettivo “ottimo”. A prescindere dalle qualità che sono necessarie per uno specifico paziente, in generale l’analista deve essere “sufficientemente buono” e pure “sufficientemente cattivo”. Cattivo nel senso di essere capace di “ringhiare” senza avere il timore di che cosa il ringhio produrrà.
Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?
Tante scuole, tante idee, tanti punti di vista. Anche all’interno di uno stesso orientamento, vivono stili e punti di vista assai differenti rispetto ai quali l’analista deve mantenersi curioso anche quando non gli si addicono. Io credo di essere maturato proprio nel confronto continuo con molti supervisori e con molti maestri. Non mi sono peraltro mai pentito di essermi interessato ad autori anche lontani dal mio modo di procedere. Purtroppo però non per tutti avviene questo. Vi sono colleghi che si interessano solamente ai “grandi” autori del loro orientamento e che leggono assai poco gli scritti di tutti gli altri colleghi, ritenendoli quasi un disturbo. Ne conosco molti di analisti di questo tipo, anche fra i miei amici. I miei nonni, da ambo le parti, dicevano “il mondo è bello perché è vario”. Un punto che io condivido … anche se ovviamente dubito che un analista non curioso rispetto ai suoi colleghi possa essere davvero aperto con i suoi pazienti… .
Perché ritiene Freud il più convincente dei maestri?
Non direi che Freud è il più convincente dei maestri … in quanto da subito la psicoanalisi si è andata via via modificando grazie all’apporto di molti membri della comunità psicoanalitica … che hanno potuto dissodare aree dell’esistenza psichica meno avvicinabili e raggiungibili per Freud. Contributi fondamentali all’orientamento psicoanalitico da me seguito sono quelli di Ferenczi; Klein; Winnicott; Bion; Balint Alice, Michael, Enid; W. Reich; Anna Freud; Heimann; diversi British Independents … per restare agli allievi di Freud di prima e seconda generazione. È il lavoro di questa comunità psicoanalitica che per me è il più convincente, non Freud in sé che, benché iniziatore geniale, era anche inevitabilmente caratterizzato da molti limiti connessi alla sua personalità e al suo tempo.
Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?
Non credo di sapere bene che cosa Hillman intenda con questa espressione … ma visto che io lavoro con le immagini – spesso “faunistiche” come si vedrà nel mio ultimo libro probabilmente intitolato “Una vita cura una vita” (Torino: Bollati Boringhieri, 2020) – può darsi che il mio ispirarmi a quanto emerge dal mio preconscio immedesimandomi nel paziente e lasciandomi ispirare dall’influenza di quest’ultimo si avvicini a quanto intendono Hillman e gli junghiani. Nel mio modo di procedere non vi è tuttavia nulla di estetico o di intellettuale, ma solamente il lasciar emergere la poesia, prima della prosa, dell’incontro …, poesia che diviene raggiungibile a livello di comprensione più consapevole quasi sempre in après-coup.
Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?
Di solito è la coppia al lavoro che decide insieme quando terminare un’analisi. Ciò avviene usualmente quando nella loro interazione è sorto un “sentimento di amicizia” e di “reciproca lealtà” … non solo nella loro interazione ma nel rapporto del paziente con il suo mondo interno e con i personaggi che lo caratterizzano. Quando avviene questo, l’individuo può dir “sì” e dir “no” senza eccessivo spavento e quindi può procedere da solo senza l’ausilio di un altro che lo sorregge e lo capisce. Questa funzione infatti l’ha ormai costituita dentro di sé ed è essa che gli permette di pensare che è giunto il tempo di terminare l’analisi. Avendo egli acquisito una separatezza interna, la separazione è fisiologicamente necessaria e perciò non produce più ferita ma il semplice dolore che si è andati avanti passando a un’altra età della vita. Anche all’analista a conclusione di ogni analisi succede qualcosa di analogo. L’analisi poi termina, ma non finisce: uno la continua da solo e, se è necessario, è disponibile a ritornare a chiedere aiuto (questo è peraltro secondo me un buon criterio di fine analisi, intendo il poter richiedere aiuto se necessario).
Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?
Penso che le cose stiano molto male quando il paziente mi fa addormentare e mi è difficile “risuonare” con lui. Ci si trova in una situazione altrettanto grave quando il paziente non è preoccupato di che cosa comunica mentre invece lo sono i suoi familiari, il suo/la sua partner, e in analisi l’analista. Ci sono invece pazienti che presentano una sintomatologia cospicua ma riescono a comunicare ciò che li riguarda facendolo intendere all’analista. Molti pazienti poi hanno sistematicamente bisogno di un analista che viva al posto loro le emozioni-affetti infantili e adolescenziali che hanno dissociato da sé. Il processo analitico con questi ultimi sarà molto lungo. Uno dei miei cavalli di battaglia, a quest’ultimo proposito, è il “rovesciamento dei ruoli” a cui ho dedicato dal 1994 moltissimo tempo e scrittura: detto in breve, l’analista diventa il bambino che il paziente ha dissociato da sé mentre il paziente è identificato all’aggressore deprivante senza esserne consapevole. Ci sono pure pazienti la cui sintomatologia presa per sé stessa spaventa, che tuttavia comunicano in modo tale da riuscire a incuriosire l’analista e a renderlo vivo. È un buon segno prognostico questo ma bisogna in ogni caso fare attenzione che non si tratti di un paziente orientato in modo perverso, pronto a “pervertire” in modo mascherato e non subito individuabile il processo analitico. Oggigiorno, naturalmente, l’analisi si è approfondita molto per cui si lavora con i nostri pazienti anche a livello della loro strutturazione primaria e primitiva e non solo conflittuale-edipica. Io personalmente ho sempre lavorato anche con pazienti psicotici, ottenendo discreti risultati. Di solito questi pazienti vengono respinti perché obbligano a non attenersi al setting classico e a “sporcarsi le mani”, cosa che molti non hanno voglia di fare.
Curano di più le parole o i silenzi?
Io credo che ciò che cura sia l’“essere responsivo” dell’analista, il fatto cioè che egli risponda alla sofferenza che gli comunica il paziente. Il fatto – specificherei – che egli trovi per quello specifico paziente e per quel momento dell’analisi il modo appropriato per essere responsivo con lui. Per questa ragione, in certi momenti, anche il tacere può essere la cosa migliore da fare, il tacere ascoltando quanto il paziente dice; il più spesso questo tacere va però accompagnato da un gesto di presenza partecipe. Quasi sempre infatti il paziente ha bisogno anche di una risposta verbale magari semplicemente del tipo “so di che cosa tu parli”, una risposta verbale che è capace di tranquillizzare pur senza negare e diminuire la paura e il terrore del paziente. Per l’esperienza che ha di sé e della vita, l’analista ha il compito di trasformare in “fisiologici” molti drammi che, quando accadono, vengono vissuti come “catastrofici” e “molto patologici”. Ferenczi ha messo molto bene in evidenza questo aspetto parlando dell’importanza che l’analista ricordi e che abbia a propria disposizione la sua infanzia e la sua adolescenza, e anche la sua infanzia e la sua adolescenza come paziente, rammentandosi così di come molte cose che tutto subito terrorizzano lentamente perderanno quell’alone catastrofico che di primo acchito generano. Come ho esordito all’inizio di questa intervista, la psicoanalisi è una conversazione, una “conversazione speciale”, fatta non soltanto dai contenuti e dalle parole, ma dai modi e dai ritmi con cui le parole vengono dette e dagli affetti che vengono trasmessi nelle comunicazioni e nelle non-comunicazioni (silenzi) che porgiamo al paziente. Ripeto qui che ogni comunicazione, ogni silenzio, è sempre una meta-comunicazione inconscia e che l’elemento meta-comunicativo è assai più rilevante dell’aspetto informativo nell’evoluzione di un’analisi. Heimann e Rycroft, oltre a Ferenczi, hanno evidenziato assai bene questo aspetto!
Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?
Prima di oltrepassare Freud e i maestri bisogna conquistarli interiormente e ciò richiede anni e anni di lavoro su noi stessi e su noi con i nostri pazienti. A quel punto Freud e i maestri continuano a esserci, ma sono sullo sfondo. Non li imitiamo più, ossia, perché nella maggior parte dei casi riscopriamo l’analisi in modo nuovo a partire da ogni esperienza analitica che facciamo. Nel caso non avvenga questo, dobbiamo di conseguenza chiederci che cos’è che ci spaventa in quella situazione tanto da non riuscire a lasciarci andare attendendo che cosa con il tempo emerge da noi e dal paziente. Se possiamo fare questo, è probabile che tutto si ri-metterà lentamente in moto e la nostra paura sarà diminuita. Se non succede ciò, perché non pensare di inviare il paziente a un collega che potrebbe “intenderlo” di più? Essere dei bravi analisti vuol dire anche e soprattutto riconoscere i nostri limiti senza sentirsi “dimezzati”. Oltrepassare poi vuol dire secondo me “osare a essere noi stessi”, “conquistare – vale a dire – un nostro stile”, che sarà sempre un po’ diverso e nuovo in ogni analisi e con ogni paziente. Rispetto al paziente e alla sua analisi, vale quanto detto sopra, e cioè: ogni paziente deve arrivare al punto di “essere se stesso” osando essere diverso dal proprio padre e dalla propria madre. Non credo tuttavia questo equivalga a uccidere i propri genitori, ma a sapersi separare da loro e ad essere divenuti capaci di capire le loro mancanze e i loro limiti senza più tutto l’odio, la rabbia, l’astio che si può aver provato nei loro confronti al tempo della non-maturità e della eccessiva vulnerabilità. Certo quando si è raggiunto ciò, è caduta l’idealizzazione e con essa anche la persecuzione che sempre viene ad accompagnarla e si è trovato frequentemente per conto nostro figure a cui affidarsi e attraverso cui crescere.
Come si lavora per far crollare le resistenze?
Già Ferenczi vedeva le resistenze del paziente connesse alle resistenze dell’analista, segnalando come le resistenze sorgessero in un’interazione e non da sole, soprattutto laddove nello sviluppo della persona l’individuo aveva incontrato un “eccesso pulsionale da parte dell’altro”, un eccesso caratterizzato da un investimento relazionale “mancante per un più o un meno di affetti”, “non metabolizzati”. Quando nel passato è avvenuto questo, siffatta situazione viene a ripetersi nella dinamica (dinamiche) transfert/controtransfert ogni qualvolta l’analista viene a riprodurre qualcosa che è già successo in passato mettendo a causa di ciò in guardia l’individuo. Non so se parlerei di “crollo delle resistenze”, poiché le resistenze come le difese – segnalando qualcosa che non va nell’interazione – sono pure un indice utile per la sopravvivenza dell’individuo e per comprendere cosa sta avvenendo nella relazione fra analista e paziente e viceversa. Se l’analista è “disposto a trasformare qualcosa di sé” nel rapporto con il paziente, di solito anche il paziente diminuirà la sua difensiva messa in guardia e il suo controllo, e sarà più disposto ad aiutare l’analista a capirlo. Se l’analista invece vede in questo atteggiamento del paziente solo qualcosa di negativo, è probabile che si metta in gioco nell’analisi un circolo vizioso che non raramente sarà simile a quello avvenuto in passato (quando il paziente è scappato di fronte a qualcosa che lo ha spaventato, mettendosi sovente ad attaccare anche chi lo aiuta). Allorché, al contrario, l’analista – se si imbatte in quest’occorrenza – si coinvolge lavorando anche su se stesso, le cose generalmente si vengono prima o poi a modificare. Non sto dicendo con ciò che l’analista debba essere buono, ma – certo – che deve essere disposto a “coinvolgersi di più”, a porre più amore e più odio nell’interazione, disposto – in aggiunta – a starci dentro al fine di riuscire a capire cosa sta avvenendo. Se all’analista viene da “ringhiare” è così un fatto importante ma l’importante è che egli non si spaventi per il suo ringhio e che parta spedito a comprendere che cosa lo ha generato. Questo è l’unico punto di partenza valido.
È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?
La gestione del transfert è intimamente associata alla gestione del controtransfert, da cui peraltro proviene la nostra possibilità di comprendere l’altro. Con Paula Heimann e Ferenczi io ho chiamato il controtransfert la risposta emozionale-affettiva dell’analista facendo vedere in tutti i miei scritti com’essa sia la fonte della nostra comprensione e come sia strettamente collegata a ciò che il paziente trasferisce nel suo rapporto con noi. Nel libro che uscirà “Una vita cura una vita” porto moltissimi casi in cui mostro come la mia risposta emotivo-affettiva mi abbia aiutato a raggiungere il paziente anche quando tutto subito non mi era apparsa appropriata. Per ognuno di essi, oltre ad aver descritto la mia risposta, ho cercato di mostrare come via via l’ho elaborata al fine di renderla efficace per quella specifica analisi e per quello specifico momento d’incontro.
Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?
Il sogno è uno degli elementi importanti di un’analisi, ma non il solo e il più importante. I sogni sono una forma di comunicazione, possono per esempio già ai primi colloqui essere un “biglietto di visita” del paziente, che preannuncia quanto potrà accadere nell’analisi. Molto spesso poi i sogni tendono a rispecchiare che cosa sta avvenendo in quel momento specifico dell’analisi e spesso, quando il paziente agisce al posto di pensare, illustrano che cosa sta andando in onda o che cosa andrà in onda nel rapporto senza che il paziente ne abbia alcuna consapevolezza. Proprio per il fatto che non sono materiale cosciente i sogni gettano luce sul paziente, sul transfert, sul controtransfert; e anche sul passato, sul presente e sul futuro. Freud usava i sogni per leggere i contenuti dell’inconscio secondo le sue teorie, praticando un’analisi molto informativa e assai meno esperienziale. Quanto lui ha messo in luce centrandosi sui contenuti dell’inconscio e della fantasia inconscia rimane comunque importante, ma ciò che facciamo oggi è legare quanto aveva osservato Freud alle caratteristiche delle relazioni attuali e passate di quello specifico paziente. Non è così, in sintesi, il sogno a dover essere ben interpretato ma è il rapporto del paziente con l’analista e viceversa che deve essere ben interpretato e connesso all’“onda lunga del transfert e del controtransfert”. Se uno fa regolarmente ciò senza che ciò diventi “una fissa” nel suo modo di procedere, questo lavoro che l’analista offre al paziente produrrà prima o poi i suoi frutti. Bisognerebbe qui soffermarsi su che cosa è ciò che determina i cambiamenti temporanei nell’analisi e ancora di più ciò che gradualmente col tempo porta a cambiamenti strutturali. Si tratta di un insieme di fattori complessi difficilmente – a volte – individuabili e distinguibili. Non sono in ogni caso unicamente le sole interpretazioni il fattore terapeutico, ma piuttosto (lo ribadisco) la complessità di funzioni che un analista “sufficientemente buono” svolge per il paziente. Spero che quanto ho detto non venga inteso, come ironicamente dice la Heimann, nel senso che l’analista è l’accompagnatore turistico che annuncia al paziente qualcosa come: “a destra c’è un baobab, a sinistra un ananas e così via…”, facendolo in modo asfissiante cosicché il paziente non osserva più che cosa c’è a destra e a sinistra secondo lui e che cosa lo colpisce.
Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?
Essere pazienti non è affatto facile perché bisogna accettare l’aiuto di un’altra persona che nell’immediato è a te sconosciuta e, quindi, di instaurare con lui/lei un rapporto di intimità e di dipendenza entro cui si esporranno le proprie fragilità e gli aspetti di sé che sentiamo non amabili e poco accettabili. L’analista deve di conseguenza avere molto bene in mente che cosa vuol dire essere pazienti per poter aiutare il paziente e cercare di avvicinarsi a lui nel modo giusto affinché gradualmente con il tempo questi possa fidarsi del suo interlocutore e far conto su di lui. Io porrei, detto ciò, la domanda in un altro modo, sottolineando come la cosa più difficile anche per gli analisti sia la paura, e – in particolare – la paura dell’intimità e della dipendenza. Le emozioni, gli affetti spaventano infatti anche gli analisti, non solo i pazienti. “I due” – come osservava Bion – sono “entrambi spaventati”. L’analista dovrebbe però essere più attrezzato rispetto alle proprie paure, deve cioè essere capace di non negarle in quanto solo in questo modo può vedere in esse una risorsa e non unicamente un ostacolo.
Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?
L’analisi richiede molto tempo, non può perciò essere breve in nessun senso. Le radici della nostra sofferenza sono nel lontano passato, nell’infanzia e nell’adolescenza: non si può di conseguenza rapidamente affrontarle né tantomeno elaborarle. Spesso dico ai miei pazienti che l’analisi è una sorta di palestra psichica e, come avviene per la vera e propria palestra, questa diviene utile ed efficace producendo cambiamenti strutturali solo se uno la pratica molte volte la settimana e per molti anni … e accompagna a questo impegno un’adeguata forma di vita. Se uno va in palestra per poco tempo, infatti, raggiunge – sì – dei cambiamenti, ma questi sono temporanei. La sua strutturazione di fondo, cioè, non si modifica e, se si modifica, la modificazione potrà essere persa facilmente. Ciò non succede se l’analisi diventa un esercizio di vita: non credo di aver mai visto un paziente non cambiare nel corso dell’analisi. Beninteso, uno non deve aspettarsi da essa cambiamenti miracolosi … ma piuttosto accontentarsi di diventare in grado di mutare il proprio rapporto con sé e con gli altri, e di diventare capace di godere maggiormente la vita e le possibilità che ha. Succede poi che molte persone smettano un’analisi, magari anche per le contingenze della vita e che la riprendano in un’altra città, in un altro paese, in un diverso momento della propria esistenza. È possibile così effettuare un’analisi breve che – se le cose nella tranche precedente sono andate bene – potrà essere in futuro o in altro luogo continuata. Si può inoltre fare un’analisi a meno sedute, ma il paziente deve essere molto motivato e l’analista deve avere molta esperienza. In un’analisi a 4 sedute – se è possibile, è questo il mio ritmo – è molto più facile capire che cosa avviene e avviare un processo di elaborazione approfondita. In ogni caso uno procede con ciò che si può fare. L’importante è essere onesti e non creare illusioni su ciò che è possibile raggiungere. Benché come ho detto, preferisca lavorare a 4 sedute, mi è capitato di fare un buon lavoro anche a 1 o 2 sedute. Certo il paziente – lo ribadisco – deve essere motivato, e la scelta di fare solamente una o due sedute deve fondarsi su valide ragioni, non su una qualche forma di pregiudiziale disimpegno. Oggi infine succede che è comune partire con poche sedute e aumentarle via via con il tempo allorché il paziente riesce a mettersi in grado di lavorare a un ritmo di sedute più elevato. Sicuramente l’analista, in questi casi, deve essere anche pronto a diminuire il suo onorario … e a tenere a freno e modulare le sue pretese super-egoiche che spesso sono maggiori di quelle dei nostri pazienti.
L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?
È un cammino di libertà e anche di creatività, e di tutto ciò che permette la libertà e la creatività. Fra cui, principalmente: l’apprendere con la maturità a non essere intimiditi dall’intimità del dialogo inconscio analista e paziente e viceversa, l’apprendere ossia a non aver paura di che cosa emerge nella propria mente dopo che abbiamo accolto dentro di noi il paziente aspettando che affiori qualcosa dalla nostra digestione inconscia. Nel mio ultimo libro prima citato porto più di venti casi in cui mostro cosa emerge in noi stessi nell’incontro con l’altro tentando un’esplorazione di quanto emerge rispetto a quell’analisi, a quel paziente, a quel momento dell’analisi.
Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?
Che l’analista sia “morto” e non vivo. Anche quando è morto, se accetta la dolorosa via di cercare di capire che cosa ha determinato questo, la vita comunque può ritornare e l’analisi può così rimettersi in moto. L’“analista morto” infatti non può né emozionarsi, né pensare a quanto l’ha emozionato portandolo a spegnersi. Ciò che l’ha fatto spegnere può infine derivare da lui, dal paziente e/o dal loro incontro: ciò va investigato. Un’analisi – voglio aggiungere – richiede necessariamente periodi di “morta”, che vanno tuttavia distinti da quando è la curiosità emotiva e cognitiva dell’analista che si è spenta.
Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?
Non credo che Ogden dica che ci vogliono due persone per pensare, eccetto forse quando parla del bambino piccolissimo e della madre, che a mio avviso però – oltre a svolgere funzioni non solo facilitanti ma provvidenti – deve svolgere altresì funzioni paterne fin dall’inizio. La funzione paterna, che Ogden chiama la funzione “di terzo”, deve essere in qualche modo presente sin dagli albori della vita. In analisi poi viene progressivamente a presentarsi tutto un mondo di personaggi, appartenenti al mondo interno e al mondo esterno, personaggi che collaborano alla seduta e che vanno intercettati, nominati ed elaborati. L’“elaborazione” è comunque un “work in progress”, un “work in progress” che richiede sempre una ripetuta nuova elaborazione di quanto è già stato pensato ed elaborato.
La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?
In generale, la sessualità – essendo un’importante forma esistenziale dell’umano – continua a essere al centro dell’analisi ma – forse – meno di un tempo. Va però connessa alla relazione e all’intimità: è questa connessione che continua a mio parere a essere al centro dell’analisi e che deve essere esplorata ed elaborata a fondo nel corso di un’analisi poiché è nella strutturazione o meno di questa connessione che si annidano tutti i disturbi psichici e ogni sofferenza. Come diceva Ferenczi, la “catastrofe”, grande o piccola che sia, avviene sempre a causa di qualcosa che è mancato a livello di amore. Beninteso, a livello di amore e pure dell’odio che inevitabilmente si accompagna all’amore.
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