Charles Melman, l'esplorazione di una servitù
Il noto psicoanalista francese sarà a Roma il prossimo 26 ottobre presso il Centro studi San Luigi de' Francesi per l'incontro "Una donna sa ancora ciò che vuole?", con Marie-Charlotte Cadeau e il 27 ottobre al MACRO per la rassegna di incontri "Ripensare la comunità", organizzata da Castelvecchi Editore e Filosofia in Movimento, in collaborazione con Macro Asilo e con l'Associazione Lacaniana Internazionale-Roma. Castelvecchi, tra l’altro, pubblicherà tutte le opere di Melman, e i primi a partire da questo mese: "Che potere vogliamo?", conMarcel Gauchet; "L'arché-logica o la logica dei principi dellʼautorità"; "Psicologia dell'immigrazione", con Nazir Hamad. L’occasione è troppo ghiotta per non anticipare l’attesa visita con un’intervista. La stessa proposta a tanti analisti italiani
Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?
Solo attraverso l’analisi un soggetto può scoprire il proprio asservimento, la propria dipendenza dal logos, dal linguaggio, e trarne alcune conseguenze pratiche. In modo particolare, un’analisi ha di mira il desiderio e porta il soggetto a indagarlo per sapere che cos’è che lo organizza e chi lo controlla.
Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?
Sono andato da un analista per via di un sintomo: la mia tendenza a fallire ogni qual volta si profilava la possibilità di un successo. Detto altrimenti: il mio gusto di rimanere schiavo... In questo, devo dire, sono in buona compagnia!
Come scelse i suoi analisti?
Stavo preparando un concorso di medicina insieme a Jean Laplanche, all’epoca mio compagno di studi. Tre volte alla settimana, alle quattro del pomeriggio, Jean si assentava per poi tornare un’ora dopo visibilmente rasserenato. Ho fatto come lui, sono andato dal suo stesso analista [Jacques Lacan].
Che cosa occorre per fare un ottimo analista?
Bisogna essere contorti e cercare di trovare un contorcimento meno stupido.
Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?
La psicoanalisi non può essere una scienza, per questo esistono tante scuole, che si distinguono per la loro etica o per il loro grado di ignoranza.
Perché ritiene Lacan il più convincente dei maestri?
Poiché la psicoanalisi non è una scienza, Lacan ha fatto leva su un rigore che, quantomeno, protegge dai buoni sentimenti (che spesso celano e mascherano un’aggressività maggiore di quelli cattivi) e dalle utopie, che sono altrettanto dannose.
Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?
Cosa animi un soggetto è una questione più che mai attuale, perché ad animare, oggi, è un oggetto prodotto dalla tecnologia. E non c’è più un Dio sufficientemente rispettato a legittimare l’anima. Il soggetto, fragile, rimane dunque molto solo, proprio come lei e come me.
Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?
C’è una fine legittima della cura. Quando l’analizzante è confrontato all’oggetto che organizza il suo fantasma e riesce a rendersi conto del sembiante che, a partire da quel fantasma, governa la sua esistenza. Solo allora l’esistenza potrà essere ri-abitata, vale a dire: potrà essere presa sul serio.
Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?
In una cultura in cui è scomparsa la rimozione, la nevrosi più grave è diventata una dipendenza: la dipendenza da un oggetto che non è più quello del fantasma, quindi singolare, ma quello della tecnologia, che satura il soddisfacimento del soggetto. Questi ne è, a sua volta, suturato, strangolato.
Curano di più le parole o i silenzi?
Vi sono silenzi eloquenti e parole vuote.
Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?
Il mito dell’uccisione del padre è una vera idiozia, perché l’antenato (sia quello della stirpe sia quello dell’umanità, come preferisce) è per definizione morto. Per ucciderlo bisognerebbe cancellarne la tomba. Se si nutre rancore verso il pater familias è perché è lui a introdurre il sesso in casa, contrastando così l’esclusività dell’amore materno per il figlio. Il “progresso”, per come si sta profilando, consisterà nel fabbricare figli fuori dal sesso.
Come si lavora per far crollare le resistenze?
Secondo Lacan la principale resistenza proviene dall’analista che si opporrebbe al disvelamento del suo essere nient’altro che il supporto dell’oggetto di un fantasma – quindi non necessariamente carino o profumato...
È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?
Sia il transfert che il contro-transfert sono difficili da gestire.
Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?
Un sogno non ci consegna mai l’ultima parola, lo diceva già Freud. Perché non esiste ultima parola. Una buona interpretazione allora è quella che ritaglia, al suo posto, il buco di un silenzio significativo, come quello di Irma che apre L'interpretazione dei sogni.
Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?
Effettivamente sono entrambi all’opera ed è sorprendente constatare, a fine giornata, quanto può essere faticoso.
Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?
La nevrosi è ben più costosa dell’analisi, sia essa breve, lunga o anche lunghissima.
L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?
L’analisi è l’esplorazione di una servitù, al termine della quale è possibile che il soggetto si ritrovi adeguatamente diviso. D’altronde, chi non è schiavo? Se la schiavitù del lavoratore dura trentanove ore alla settimana, bisogna forse prendere atto che quella del padrone è a tempo pieno?
Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?
Il rischio è di scatenare forze ostili alla messa in discussione delle fondamenta e dei fondatori della soggettività, forze che possono indurre il paziente a spostare nel campo della realtà sociale ciò che sarebbe dovuto restare nel campo di quella psichica. Per questo motivo Freud è stato maltrattato dai suoi allievi e Lacan non è stato da meno. Il problema è che l’odio è ancor meno portatore di sapere dell’amore, e non rende più intelligenti. Di certo lo psicoanalista si assume un rischio permanente: capita infatti che sia trattato da un paziente non meglio di come lo tratta la società e il destino da essa riservato alla psicoanalisi.
Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?
Nella cura, non si è mai soltanto in due. La parola del paziente è sempre indirizzata a un terzo intermediario – ecco la sorpresa! – ed è proprio questo terzo l’oggetto del transfert.
La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?
Probabilmente la nostra specie sarà consegnata al godimento d’organo, ripulito dalla sessualità che fonda il rapporto con il prossimo. Sarà forse questa l’ultima parola, finora impossibile, del “progresso”?
Il Foglio sportivo - in corpore sano