Le poesie del dottor Sonne, la passione di Canetti
In libreria, grazie a “Portatori d’acqua”, la raccolta di una leggenda nella storia della poesia ebraica e di uno dei suoi massimi rappresentanti. I rapporti di amicizia con Joyce, Broch e con l’autore di “Massa e potere”, che ne aveva una sorta di venerazione, e un singolare modo di essere e di sentire…
“Portatori d’acqua”, la piccola casa editrice marchigiana ci ...porta all’attenzione le poesie di Avraham Ben Yitzhak. Chi è? È il dottor Sonne, l’altra figura, insieme a Kafka, individuata da Roberto Esposito nella “scena canettiana della passività della potenza”. Chi ha letto Il gioco degli occhi sa che Elias Canetti apre le pagine a lui dedicate con alcune domande e una risposta: “Che cosa mi ha tanto affascinato nel dottor Sonne? Perché volevo vederlo ogni giorno, lo cercavo ogni giorno? Perché era diventato l’oggetto della passione più ardente che un intellettuale mi avesse mai ispirato? In primo luogo c’era l’assenza di ogni riferimento personale”. Nota il filosofo napoletano: “Sonne è Kraus, ma un Kraus guardato dal suo rovescio, dal punto di vista che a Kraus non somiglia affatto […]. È quella parte di Kraus che Kraus non sa essere; che la sua presenza, più ancora, la sua parola, continuamente nega. Sonne è la parte inascoltata di Kraus. Il suo silenzio”.
Canetti è estasiato: "Sonne non era un collezionista: sapeva tutto, ma non teneva niente per sé come proprietà personale. Aveva letto tutto, ma non l'ho mai visto con un libro in mano. Era lui stesso la biblioteca che non possedeva. Dava l'impressione di aver già letto da tempo tutto ciò di cui si parlava. Non tentava mai di nascondere che se l'era annotato mentalmente. Non se ne faceva un vanto, non tirava fuori nulla a sproposito. Ma quando veniva l'occasione, tutto era lì, infallibilmente, ed era incredibile come non mancasse mai nulla" e continua: "Sonne non voleva niente […]. Era libero da ogni scopo e non si misurava con nessuno […]. Sonne non parlava mai di sé. Non diceva mai niente in prima persona. Ma anche nel rivolgerti la parola non usava la forma diretta. Tutto era detto in terza persona e così collocato a una certa distanza». Canetti, da Sonne, apprende cos'è il silenzio. Sonne non dice io. Assoluta impersonalità. Sonne non abbandona il mondo, si annulla nel mondo. Sonne ci lascia Poesie, a cura di Anna Linda Callow e Cosimo Nicolini Coen, undici poesie, dieci poesie più una verrebbe da dire, con un magnifico saggio di Lea Goldberg, una delle maggiori poetesse di lingua ebraica del Novecento, scritto nel 1952, dal titolo “Incontro con un poeta”.
Scrivono i curatori nell’introduzione: “Nelle poche poesie pubblicate, così come nelle bozze e nei frammenti che nella presente edizione vengono per la prima volta resi disponibili al lettore italiano, saremmo dunque chiamati a ravvisare il distillato di un interesse di carattere tanto metafisico quanto esistenziale. Metafisico, poiché alla scrittura poetica viene riconosciuto il ruolo di costituire o di captare – e in questa ‘o’ disgiuntiva corre una distinzione radicale che bisognerebbe in altra sede indagare – le radici stesse della realtà. Esistenziale, poiché la capacità di ‘ascoltare questo piano della realtà’ è inevitabilmente il risultato di uno sforzo individuale. Entrambe le caratteristiche possono essere agevolmente attribuite a molti altri poeti, nonché a intere correnti letterarie. Tuttavia se esse hanno contribuito a renderne l’opera così importante agli occhi di alcuni tra i suoi prestigiosi contemporanei, è forse perché si iscrivevano nel quadro particolare della rinascita, nel solco del sionismo, dell’ebraico quale lingua secolare, strumento tanto per la comunicazione quotidiana quanto per una scrittura in prosa e poesia che potesse dare esauriente ragione del rinascimento culturale e nazionale dell’ebraismo”.
Scrive il poeta in una delle poesie più struggenti:
Quando si spegneranno i rossi falò della nostra vita
ci toglieremo dalla fronte la ghirlanda delle feste
con le foglie scompigliate e le rose cadenti,
poi in silenzio scenderemo ai fiumi.
Racconta Goldberg: “Quando andai per la prima volta a visitarlo durante la sua malattia, mi parlò a lungo del pino che si vedeva dalla finestra: di come giaceva per ore intere a contemplare ogni movimento dei rami, di come ne percepiva la vita nelle diverse ore del giorno e al variare delle condizioni atmosferiche. E nei giorni piovosi: ‘Il modo in cui si abbandona – ciascun ago per proprio conto – come un uccello nella pioggia!’. Ma più di una volta in questa sua contemplazione del mondo vegetale – (‘Ho un carattere spiccatamente visivo,’ mi disse ‘quando ho davanti la forma di un fiore la osservo per ore, e non posso pensare a nient’altro’) – vedeva anche l’unicità di ogni foglia e di ogni piantina, il lato tragico della fioritura, infatti quando esse vengono distrutte, altre ne prendono il posto, diverse dalle precedenti. E negli ultimi giorni della sua vita, era questa la sensazione dominante, e proprio lui, che si rallegrava così tanto per ogni nuova forma di fiore, mi chiese, infine, di non portargliene più, non poteva vederli”.
Abraham Sonne, nato nel 1883 in Galizia e morto nel 1950 in Israele, è una leggenda nella storia della poesia ebraica e uno dei suoi massimi rappresentanti. Noi oggi, grazie a “Portatori d’acqua”, parliamo di lui in pubblico. Aggiunge Goldberg: “Non voleva che si parlasse di lui in pubblico. Davanti al suo nome stampato assumeva quell’espressione di sofferenza e disprezzo a un tempo che gli procurava una stretta al cuore a quanti la vedevano. Ogni scrittura che lo riguardava era una ferita inferta ai suoi sentimenti. Perciò sarà così difficile parlare di lui adesso che non legge, non sente e non può più proibirci di farlo. Ma non è possibile rispettare la sua volontà, non è possibile dimenticarlo come desiderava”.
Concordiamo. Tanto da non aver resistito, neppure noi, a scriverne, a presentarlo ai lettori italiani. Chiediamo scusa, dottor Sonne. A lei e al suo amico Canetti.
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