Franco Ferrarotti, uomo di carta (e di ferro)
Il (non) rapporto con il padre, uomo della Natura, è alla base dell’ultimo libro del grande sociologo. Dalla Bassa Vercellese a oggi, storia di due mondi diversi, di due figure lontane eppure ancora unite da un filo che non può spezzarsi
Franco Ferrarotti, forse inconsapevolmente, ha scritto uno stupendo saggio di psicoanalisi. Non teorico, ma pratico, posto che nella pratica non sia anche possibile recuperare una qualche teoria. L’uomo di carta. Archeologia di un padre, edito da Marietti, attraversa un mondo che non è più ma, attraversandolo, per differenza e sottrazione, ci mostra il mondo che è adesso, dove non si darà l’archeologia di un padre poiché il padre è evaporato, come dissolto dal tempo che tutto cancella o, se vi rasserena di più, tutto trasforma. Il padre del grande sociologo non aveva dubbi e sferzava il figlio: «Sarai sempre e solo un uomo di carta». Scrive Ferrarotti: «Di lui mi affascinavano il silenzio, la tenacia, la decisione nell’azione. Ma in lui non c’era nulla di amichevole: era il padre, non un amico. Questo conferiva al nostro rapporto una solidità data per scontata, un fatto naturale, non da inventarsi e dichiararsi tutte le mattine. Si comunicava semplicemente sedendo alla stessa tavola, guardando gli stessi paesaggi, i campi ondeggianti come oceani nella tarda primavera; lo stormire dei pioppi, in tutto simili a una selva di canne d’organo. I nostri contrasti scavavano più a fondo, intaccavano la psiche».
Nella Bassa Vercellese, ma anche altrove, erano anni durissimi. Salvare un cavallo poteva essere più importante che salvare un bambino e Ferrarotti nacque malaticcio. Il padre non gli dava più di un anno di vita: «Quest’uomo piuttosto taciturno, che a occhio riusciva a stabilire con precisione il peso di un cavallo, si sbagliava, ovviamente, a proposito della mia tenuta vitale. Ed è bello constatare che anche i padri, qualche volta e forse più di una volta, si sbagliano. Poco più tardi, tuttavia, quando non ero neppure pubere, e mi sbirciava di sottecchi, vedendomi affondare e perdermi in mezzo ai quaderni, ai taccuini e ai libri aveva certamente ragione. Scuotendo il testone stempiato, farfugliava fra sé e sé, ma abbastanza distintamente perché lo potessi udire: “Poveretto, perso in mezzo alla polvere e agli scartafacci… Non sarai mai niente. Non diventerai niente. Sarai solo un uomo di carta”».
Lui, invece, era uomo di terra, di solida terra. E la terra si tocca. Con le mani. Con i piedi. Con tutto il corpo. La terra non illude, non ammette inutili fantasie. Se i libri saranno l’estrema unzione per Ferrarotti, oggi novantreenne, la terra è stata l’estrema unzione per il padre: «Seppi che mio padre se ne stava andando mentre ero in giro per il mondo. È morto per un generale collasso cardiaco e funzionale; pare che avesse i polmoni incatramati, per così dire, non più in grado di ossigenare il sangue. Io avevo da poco superato i trent'anni. Mi dispiace che non ci sia stato il tempo di mettere in chiaro la nostra differenza: tra me, uomo del libro, e lui, uomo della Natura, al quale, la sera, quando tornava a casa, i cavalli e tutte le altre bestie andavano incontro, quasi a salutarlo con nitriti e strepiti, e lui li accarezzava, tranquillo, borbottando incomprensibili saluti».
Li accarezzava come non aveva mai accarezzato i quattro figli, eppure «quando verso gli 11 anni, poco prima della pubertà, caddi in quello stato miserando che dalle mie parti era genericamente descritto come esaurimento nervoso, seppi che, non visto, controllava l’appetito di cui davo prova all’ora dei pasti, che consumavo da solo a causa delle varie medicine e pozioni che li accompagnavano. Mia madre mi confidò una sera che, dopo avermi, non visto, osservato a lungo, la raggiunse al piano di sopra, con l’aria insolitamente allegra, per dirle: “Non c’è da preoccuparsi. Mangia bene. Mangia con gusto. Tutto si metterà a posto”. Molto dopo, quando seppe della mia partenza per gli Stati Uniti, sbottò: “E che ci va a fare in America? Ha ammazzato qualcuno?”».
In realtà, il figlio non si è mai separato dal padre. Ha girato il mondo, non l’ha visto, per tanti anni, ma l’ha tenuto dentro di sé, l’ha portato con sé. Oggi, con L’uomo di carta, fa rivivere, sulla carta, un rapporto che non si è mai sciolto. Se uno è davvero padre, non padre evanescente, e l’altro è davvero figlio, uomo di carta ma figlio di ferro, il rapporto non si scioglie. Si può arrivare tardi al suo funerale (a rape bollite, ai ràvi buji, come si dice in quel magnifico dialetto), si può non andare al cimitero dove riposa, accanto alla madre, ma il rapporto non si scioglie. Racconta Ferrarotti: «Nella campagna elettorale per la terza legislatura, 1958-1963, ero candidato nella Prima Circoscrizione (Torino-Novara-Vercelli) per il Movimento Comunità. Battevo città e paesi, con scarse risorse e un’organizzazione alquanto fragile, di fatto inesistente. Una sera dovevo parlare nella piazza principale di Trino. Il comizio si annunciava tempestoso. I grandi partiti di massa occupavano all’epoca tutto lo spazio politico disponibile e non gradivano candidati ‘indipendenti e scomodi’. Mio padre, senza dir niente a nessuno, uscì di casa avvolto nel pesante mantello nero delle grandi occasioni. Sotto il mantello nascondeva un grosso coltello, usato di solito per scuoiare i maiali. Se qualcuno si fosse azzardato a obiettargli qualcosa, borbottava, riferendosi al mio discorso e a probabili interruzioni, “io non ci metto niente a sbuscicarlo", cioè a sbudellarlo dai coglioni alla gola. Era il suo modo di manifestarmi affetto a oltranza, solidarietà al di là di tutto». L’affetto e la solidarietà di un Padre.
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