Giampiero Mughini, più libri più liberi
Tra una visita alla Fiera dell’Eur e una a casa del noto intellettuale, riflessione sull’amore per la cultura, sull’ardente desiderio di collezionare, sull’amore per la vita e per le parole che alla vita sanno trasmettere luce
…poi accade di finire sotto la Nuvola, di perdersi tra gli stand di Più Libri Più Liberi, di spiluccare qua e là, tra un’opera su Guttuso e la Sicilia che non ricordavo più e l’ultimo gioiello di Tommaso Landolfi, di sgomitare tra scolaresche vocianti e insegnanti impegnati a tenerle a freno. Poi accade di fare un salto a casa Mughini, dove ad accogliermi sono sempre Bibì e Clint, vocianti più delle scolaresche ma anche più amabili, e di accarezzare i dorsi dei nostri libri, delle prime introvabili edizioni, di aprirli, di infilarci il naso e di immaginare la scrittrice e lo scrittore che hanno vergato quelle pagine. Ci sono case aperte e case chiuse, case ricolme di nulla e ricolme di tutto, case spalancate sul mondo a dirci che siamo noi il mondo; ognuno, ha scritto Canetti, è il centro del mondo.
Poi accade, un martedì, di ritrovarlo sul Foglio a scrivere di Sciascia e di libri, di quest’Italia perennemente in bilico tra la farsa e la tragedia. Poi accade, due notti dopo, di fare un sogno (potenza di Freud) e di collocare la Fiera dell’Eur dentro casa Mughini e lui a suggerirmi un libro, una trama, un percorso di lettura. “Caro Davide, c’è che se tu mi regalassi un Caravaggio da qualche milione di euro, non saprei dove metterlo!”, mi dice Giampiero fuori dal sogno. Non c’è spicchio di casa, angolo di stanza, parte di bagno senza un oggetto che non rimandi a qualcuno o a qualcosa, che non evochi una storia o un ricordo, una rivoluzione o una scoperta, che non faccia sognare a occhi aperti. Qui c’è una foto di Pino Settanni che fa brillare una meravigliosa fanciulla libera da ogni suo velo, lì le poesie di un giovanissimo Vittorio Gassman, qui c’è una poltrona che ti invita a stenderti e a non alzarti più, lì una cornice che mai avresti potuto immaginare tanto bella, come se il quadro fosse stato dipinto per la cornice e non il contrario.
Poi accade, sabato scorso, di leggere una significativa intervista di Antonio Gnoli a Claudio Magris. Si parla di polene che spiegherebbero il Novecento, ma anche di collezionismo e lo scrittore triestino afferma: “Detesto il collezionismo perché, nella dipendenza estrema dagli oggetti, si nasconde l’amore per la morte e il desiderio irrigidito dal possesso. Al tempo stesso mi affascinano coloro che ne sono prigionieri, perché rivelano la forza della mania”. Gnoli chiede se gli oggetti siano anche interpretabili e Magris risponde: “Ovviamente sì, anche se è la cosa che interessa meno al collezionista. Non voglio dire che non ci sia. Ma tra conoscenza e feticismo è quest’ultimo a prevalere”. Non per Mughini, credo. In lui il desiderio di conoscenza di ogni singolo oggetto esclude la malattia feticista, dietro i suoi acquisti mirati si nasconde l’amore per la vita, per i suoi colori, per le forme del bello (è vero, Bodei?) che danno sapore e senso alla durezza del quotidiano. Certo, c’è una forza della mania che lo sovrasta (che ci sovrasta), ma non è il possesso a guidarne le mosse, piuttosto l’ardore di andare fino in fondo a cogliere l’originalità di un’opera, di un pensiero, di uno scatto, e a condividerne il piacere con le persone che gli sono care. Come il piacere di brindare con questo rosso dell’Etna, mentre Bibì spazzola l’ultimo piatto e Clint protesta perché il corriere ha suonato per consegnare l’ennesimo libro.
A oltre trent’anni da Compagni, addio, il piccolo e inimitabile libro che ne rivelò la bravura, l’uomo che lasciò Catania per Roma con seimila lire in tasca, l’uomo che si installò in via Trinità dei Pellegrini facendone il luogo dell’anima di una generazione, l’uomo che aveva soltanto cinquanta lire e non cento per telefonare dal bar di sotto a Vittorio Foa, ha attraversato in lungo e in largo non le passioni di un decennio, per dirla con Paolo Spriano, ma le passioni di alcuni decenni, non nelle comparsate televisive, bensì nel corpo a corpo con la lettura e la scrittura, e la mania, quella gioiosa e per alcuni fottuta mania, gli ha consentito di stupirci con altri libri che serberemo, alla maniera del serbare del suo amico Luigi Pintor. Se penso a Una città atta agli eroi e ai suicidi. Il “caso Svevo”, se penso a A via della Mercede c’era un razzista. Lo strano caso di Telesio Interlandi, se penso a La collezione, se penso a Gli anni della peggio gioventù. L’omicidio Calabresi e la tragedia di una generazione, alcuni brividi mi corrono dietro la schiena e sono brividi di emozione e di rabbia al cospetto di tanti scemetti e scemette che occupano il palcoscenico dei nostri giorni infelici per dirci quanto sia fritta l’aria che respiriamo.
A Giampiero ho regalato il Carteggio Croce-Gentile nella splendida edizione Aragno. Non posso regalargli né un Caravaggio da qualche milione di euro né un’imitazione da qualche migliaia di euro, ma se qualcuno venisse da me con diecimila euro in bocca a chiedermi una copia di Compagni, addio, gli offrirei un caffè, lo ringrazierei per l’attenzione verso il libro e lo rispedirei con gentilezza nel posto da dove è venuto. Non per la forza della mania, non per la malattia del feticismo, non per amore della morte, ma per amore della vita e delle parole che alla vita sanno trasmettere luce. Se a via della Mercede c’era un razzista, a via Segneri non c’è un razzista e neppure un rinnegato. C’è un Uomo. Con i suoi libri. Con la sua compagna. Con i suoi cani. Con la sua libertà. Con la sua irrinunciabile libertà.
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