Eugenio Borgna, il fiume della vita
Nell’ultimo libro, edito da Feltrinelli, il Primario emerito di Psichiatria riattraversa il lungo cammino che lo ha condotto alla soglia dei 90 anni. Dall’infanzia all’adolescenza, dall’ospedale alla libera professione, fino alla senectute, una storia interiore per ripensare l’interiorità di ogni singolo essere umano
“Ma quest’uomo scrive un libro al giorno?” mi chiede Umberto Galimberti riferendosi all’ultima fatica di Eugenio Borgna, Il fiume della vita. Una storia interiore, edito da Feltrinelli. Non è vero ma anche se fosse, la colpa sarebbe sua. Scrive infatti l’autore: “Da Milano (a Novara, ndr) venivano anche, come volontari, psicoterapeuti di scuola junghiana, e fra questi Umberto Galimberti, che all’insegnamento della filosofia univa il suo bruciante interesse alla conoscenza delle forme della follia, prendendo parte alla nostra vita in manicomio, e testimoniandoci le sue straordinarie intuizioni e riflessioni sulla follia come scandalo della ragione. A Galimberti devo (anche) l’essere stato invitato a scrivere la prefazione a un suo libro sulle relazioni tra fenomenologia e psicopatologia, edito da Feltrinelli nel 1979, e la postfazione a un altro suo libro, ancora edito da Feltrinelli nel 1983, sul tema del corpo. Sono libri che continuano a essere letti e studiati, e che hanno aperto nuove originali prospettive nella comprensione degli intrecci possibili fra filosofia e psichiatria. Ma a Galimberti devo non solo questo, ma anche la sua sollecitazione a scrivere un libro, cosa che mai avrei immaginato di fare, che raccogliesse le mie esperienza e le mie idee sulla psichiatria disseminate in riviste che quasi nessuno leggeva. Così è stato, e altri libri ne sono seguiti”.
Altri splendidi libri ne sono seguiti e quest’ultimo li contiene e riassume tutti, poiché attraversa la vita seguendo le sue singole stagioni, le sue indicibili sofferenze, i suoi inimitabili autori. Borgna si nutre di libri eccelsi, alterna Leopardi a Dickinson, Mann a Rilke, Proust a Woolf, sant’Agostino a santa Teresa d’Ávila, santa Teresa di Lisieux a madre Teresa di Calcutta, Canetti a Bobbio, Cicerone a Schopenhauer, Nietzsche a Trakl, Weil a Tolstoj, Hölderlin a Hillesum, Freud a Guardini, Dostoevskij a Heidegger, Binswanger a Benjamin, Corazzini a Pascoli, Blanchot a Musil, Celan a Nabokov, Keats a Kierkegaard e qui mi fermo anche se i fiumi continuano a correre verso il mare della vita. Una vita difficile, quella di Borgna, che parte in salita quando, dopo l’8 settembre 1943, “mio padre entrava nella Resistenza, e mia madre e noi bambini nell’agosto 1944 ci siamo dovuti allontanare dalla città, in cui abitavamo, e rifugiare in un piccolo paese di montagna”. Ma gli occhi di quest’uomo hanno sempre magicamente ritrovato la luce, negli anni degli studi, nei decenni dedicati alla malattia dell’uomo, nelle fasi più incandescenti della malinconia e del dolore, hanno sempre restituito alle povere donne e ai poveri uomini che aveva di fronte il calore dell’attenzione, dell’ascolto, della costante vicinanza.
Si può essere medici ed essere uomini, non è semplice essere entrambi. La lettura dei grandi classici lo ha aiutato a dialogare con la follia che è in noi, le pagine sublimi (tra poesia, letteratura e filosofia) che riporta sempre nei suoi libri, facendole risuonare nel passato e nel presente, tendendo uno sguardo all’orizzonte che ci attende, ne disegnano mille architetture: “I libri hanno cambiato il mio modo di riflettere sull’angoscia e sulla tristezza, sulle attese e sulle speranze infrante, sulla fragilità e sulle delusioni, delle pazienti”. Le tonalità emozionali interrogano Borgna e i suoi lettori, la scomparsa della madre, nel 1999, e della moglie, nel 2002, sono “ferite dell’anima che non si cicatrizzano, e ricordi dolorosi che non muoiono, alla luce di una speranza e di una fede che si accompagnano alla nostra vita ferita, dando un senso all’assenza, e alla nostalgia, di una persona che non è più con noi, e che continua nondimeno a essere con noi”.
Non è un uomo stanco, Eugenio Borgna. Affida la chiusura del libro alla poesia leopardiana Alla luna: “Ritornando sul colle dell’Infinito, illuminato dal chiarore lunare, egli ricorda una sera dell’anno precedente quando con gli occhi bagnati di lacrime aveva raggiunto il colle per rivolgersi alla luna. La poesia, certo, ci parla del dialogo di Leopardi con la luna ma nelle sue radici più profonde non è se non la discesa negli abissi della sua interiorità”.
Nella sua e nella nostra. Nessuna storia interiore è uguale all’altra, ma la discesa ci appartiene. Aggiunge Borgna: “Un libro che consentirà a chi lo legga nel silenzio del cuore di conoscere qualcosa di una vita che ha avuto la psichiatria come sua fragile compagna di strada: come sua fonte di riflessione sulla condizione umana ferita dal male di vivere, e nondimeno aperta ai bagliori della speranza, che è la goethiana stella cadente, alla quale sempre guardare nelle notti oscure dell’anima”. Ora anche Galimberti comprenderà che Il fiume della vita non è l’ultimo libro di Borgna, non può esserlo. E lo straordinario merito, non la colpa, è anche suo. Da fedeli lettori siamo grati a entrambi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano