I limiti di velocità di Raggi non servono a nessuno. Nemmeno ai ciclisti
La decisione del Campidoglio di imporre la velocità massima a 10 chilometri all'ora in alcune vie di Roma non risolve alcun problema: restano le buche e il traffico
Viale della moschea, quartiere Parioli, Roma. Via Nizza, quartiere Salario, Roma. Circa tre chilometri di distanza e uno stesso problema, che pare piccolo, ma è totalizzante: le buche. Si potrebbe rifare il manto, si potrebbe sistemarle una volta per tutte. Si potrebbe, ma non lo si è fatto. La soluzione l'ha trovata il Campidoglio: limite di velocità a 10 chilometri orari e tanti saluti all'emergenza.
viale della moschea a Roma
La decisione ha ovviamente fatto imbufalire gli automobilisti, costretti, a loro dire, a procedere a velocità di lumaca su strade nelle quali a velocità di lumaca non si dovrebbe andare. La decisione però dovrebbe infastidire pure i ciclisti urbani e chiunque in questi anni ha cercato di lavorare per una modalità che non sia più soltanto autocentrica.
Se infatti la diminuzione della velocità nelle aree urbane è considerata indispensabile per il disincentivo all'utilizzo massiccio dell'automobile e quindi per un miglioramento generale della sicurezza in città per pedoni e ciclisti, la delibera della giunta Raggi scredita quanto fatto negli ultimi anni da diverse amministrazioni. L'introduzione di Zone 30, ossia di quadranti cittadini nei quali la velocità massima è di trenta all'ora, è stata proposta come antidoto alla pericolosità delle strade in moltissimi stati europei. Non si tratta però solitamente di un rallentamento via segnaletica della velocità, è qualcosa di più complesso: si tratta di introdurre nel tessuto stradale una serie di misure di traffic calming, ossia restringimenti della carreggiata, chicane (realizzate dall'intersezione di aiuole, parcheggi e spazi di comune utilità), zone aperte e condivise tra pedoni, bici e automobili (sul modello olandese e svedese, dove in certe zone del nord del paese è stata del tutto eliminata la segnaletica orizzontale e verticale per aumentare la responsabilità dell'automobilista), in modo da costringere chi guida a rallentare la velocità di percorrenza. Un piano che prevede anche l'esistenza di arterie a scorrimento veloce fuori dalle zone abitate, in modo da convogliare il traffico di passaggio.
Si tratta di interventi strutturali, che modificano il tessuto urbano in modo radicale e l'idea stessa della mobilità cittadina. Sono soprattutto interventi che hanno un'utilità e un senso profondo, quello di dimostrare che un altro tipo di mobilità è possibile e soprattutto funzionale e funzionante. Chi vive in quartieri nei quali è presente la Zona 30 non tornerebbe indietro: secondo un recente studio della commissione per la mobilità europea, l'89 per cento dei residenti in questi quadranti urbani si è dichiarata molto soddisfatta del cambiamento, il 93 ha ammesso di aver riscontrato un miglioramento delle sue condizioni di vita, il 100 per cento delle abitazioni hanno avuto un incremento di valore di mercato.
Si tratta di interventi strutturali che proprio perché complessi non possono essere banalizzati da un segnale che indica la velocità massima consentita.
Ed è qui che sta il problema. L'idea di imporre dall'alto una velocità massima, e a maggior ragione zone a caso della città, non fa altro che indisporre gli automobilisti, crea uno stupido muro contro muro tra chi si muove abitualmente in auto e tutti gli altri soggetti della mobilità. E in una città come Roma dove il traffico è caotico (ventisettesima città al mondo per congestione secondo il report annuale di TomTom) e l'apertura a un cambiamento del modo di muoversi è bassissima (un recente sondaggio fatto dall'università di Amsterdam ha dimostrato come la capitale italiana sia quella in Europa con meno interesse per la mobilità ciclabile), decisioni di questo tipo non fanno altro che esasperare gli animi e allontanare la possibilità di un cambiamento reale del modo di vivere la città e muoversi in essa.